Intervista con Andrea Bolzoni (Aprile 2016)

Quando hai iniziato a suonare al chitarra e perché? Che studi hai fatto e qual è il tuo background musicale? Con che chitarre suoni e con quali hai suonato?

Avevo 12 anni. Ero attratto dalla chitarra perché la suonava, fin dalle scuole elementari, un mio amico e compagno di classe. Il coraggio di dichiarare questo interesse ai miei genitori mi venne probabilmente quando un collega di mio papà mi fece infilare un paio di cuffie un uscita a un multieffetto a cui era collegata un’Ibanez JEM nera. Mi chiese di soffiare sulle corde e sentii un suono distortissimo crescere nelle mie orecchie: ne rimasi completamente affascinato. Iniziai a prendere lezioni sotto la guida del M° Umberto Boccardi, col quale studiai all’incirca fino ai 18 anni. A cavallo dell’ultimo periodo mi avvicinai a una scuola che si trova fuori Milano dove affrontai dapprima un percorso individuale di chitarra con Giancarlo Boselli e poi frequentai un corso a tempo pieno di due anni ad indirizzo jazz, sotto la guida di Andrea Vendramin. In quegli anni ebbi l’occasione di avvicinarmi alle forme più contemporanee di jazz, grazie alle lezioni di musica d’insieme con Biagio Coppa, che ebbi modo di seguire ancora successivamente, per un altro paio d’anni. Una volta esaurito il percorso con Andrea Vendramin decisi, forse con un po’ di presunzione, che non era più tra le mie necessità quella di avere un insegnante di strumento che mi seguisse. In quel momento erano per me prioritari e più significativi i workshop con musicisti che stimavo, come anche le opportunità di seguire dei corsi di musica di insieme e di approfondimento teorico. Questo mi ha portato a spostarmi, per viaggi brevi ma molto significativi. Entrare in contatto con musicisti di grande spessore e che soprattutto non gravitavano all’interno della realtà nella quale ero nato e cresciuto mi ha permesso di aprire maggiormente gli occhi sia su quelli che erano i miei interessi che su quali erano alcuni miti, pregiudizi e incapacità da sfatare. Mi sono sempre più spostato dal jazz verso la musica improvvisata. In questa fase le due figure che hanno avuto maggiore rilevanza sono senz’altro Alberto Braida e Stefano Battaglia. Un ruolo molto importante è ricoperto anche dalla Tecnica Alexander: il contributo dei tre anni di formazione sono stati fondamentali nel mio approccio all’improvvisazione, grazie agli strumenti acquisiti che mi hanno permesso di essere sempre più consapevole di ciò che accade intorno a me e dentro di me mentre suono. Infine circa un anno e mezzo fa ho iniziato a studiare Musica Elettronica al Conservatorio di Milano. Mi è sembrata una naturale evoluzione del mio percorso.

Trovo difficoltà a definire e a parlare del mio background musicale. E’ stato ed è un susseguirsi di passioni, rifiuti e riavvicinamenti. La mia adolescenza è stata accompagnata dal rock e dal metal più estremo, gli studi jazz e l’interesse per le musiche improvvisate mi hanno consegnato un bagaglio di ascolti che però ritengo ancora parziale, i recenti studi elettronici mi stanno avvicinando a realtà che fino a non molto tempo fa pensavo troppo diverse da me.

Riguardo alle chitarre, sono ormai più di dieci anni che suono con la mia Manne Semiacustica. Posseggo anche una Silent Guitar della Yamaha che uso raramente e un’acustica di una serie economica della Ovation, che uso essenzialmente per fare lezione. Ho suonato e ho avuto pochissime altre chitarre: due elettriche, una Washburn giallissima e un’Ibanez SA, e la prima chitarra classica con cui iniziai.

 

Come è nata l’idea di un in solo come AmI? E come è stato registrato?


L’idea di un solo la coltivavo da diverso tempo, ma di fatto “AmI?” è nato per caso. Mi era stato chiesto di fare un concerto in solo, un set di impro. Non ne avevo mai fatti, quindi ho sentito la necessità di fare qualche prova. Ne ho fatta una e l’ho registrata, con attrezzature molto semplici che ho nella mia sala prove. Il concerto, per varie ragioni, è stato annullato. Ma più ascoltavo la registrazione fatta, più sentivo che lì dentro c’erano parti di me che difficilmente emergono. Sapevo che non tutte le cose erano andate come avrei voluto, che quella impro conteneva degli “errori”. Ma che cos’erano quegli errori, se non un mio riflesso? Ho vissuto l’ascolto di “amI?” come un autoritratto. Mi sembrava il modo migliore per iniziare l’avventura in solo.

 


Quali sono state e sono le tue principali influenze musicali? In che modo esprimi la tua “forma” musicale sia nell’ambito dell’esecuzione che nell’improvvisazione, sia che tu stia suonando “in solo” sia assieme altri musicisti? Elabori una “forma” predefinita apportando aggiustamenti all’occorrenza o lasci che sia la “forma” stessa ad emergere a seconda delle situazioni, o sfrutti entrambi gli approcci creativi?

Le influenze che caratterizzano maggiormente la mia musica sono quelle di un certo tipo di jazz che gravita attorno alla città di New York. Il trio Big Satan, il trio Fieldwork e gli Kneebody, per citarne alcuni. Poi Mary Halvorson, che letteralmente adoro. Su altri fronti direi che Fennesz potrebbe essere una recente fonte di ispirazione come anche diverso post-rock che ho iniziato a frequentare.

Nella maggior parte dei casi, quando mi trovo in contesti di musica improvvisata, lascio che sia la forma ad emergere. Nonostante in alcune occasioni ci sia la necessità o la liberà volontà di imporsi delle strade da seguire, trovo ancora che la spontaneità data dalla totale libertà dia vita a ciò che si suona e che si costruisce. Con questo non voglio dire che un approccio sia migliore dell’altro, ma solo che in questo momento mi sento più a mio agio nel permettere che la forma trovi la sua strada negli equilibri che si vengono a creare di momento in momento. Quando invece mi trovo in formazioni in cui, nonostante si ricorra a momenti di improvvisazione, si hanno temi scritti, preferisco avere una forma da seguire. Credo che questo dia maggior forza alle parti tematiche e permetta di creare improvvisazioni che, seppur libere, aderiscano alla composizione.


Quale significato ha l’improvvisazione nella tua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?


Negli ultimi otto anni l’improvvisazione è stata il fulcro attorno al quale è girata la mia ricerca musicale. Ed è stato un approccio non sempre sereno e spensierato, devo ammettere. Mi sono spesso chiesto se, in qualche modo, non stessi cercando una via più semplice, allontanandomi dalla pratica quotidiana di improvvisazioni su progressioni armoniche. Non è stato facile per me, che ho una forte tendenza a razionalizzare e a inquadrare in caselle tutte le cose che affronto, trovarmi in spazi liberi da esplorare e a cui dare un significato. Mi si può chiedere allora perché io abbia preso certe decisioni. E la risposta sta nel fatto che, attraverso queste decisioni, ho imparato ad ascoltare di più il mio istinto. Per me un certo tipo di strada era esaurita, non mi dava più molto e avevo la necessità di andare da un’altra parte. Ho cercato di sentire quali erano i contesti che di volta in volta mi facevano sentire stimolato, che mi restituivano qualcosa. L’improvvisazione ha rappresentato per me una fondamentale crescita artistica e personale, umana. Ora mi trovo tra le mani nuovi oggetti di ricerca: la possibilità, per me estremamente affascinante, di elaborare digitalmente in infiniti modi il materiale sonoro che la mia chitarra produce. Non so dove questa strada mi porterà, ma credo che l’improvvisazione continuerà a svolgere un ruolo molto importante.

Per quanto riguarda il repertorio classico, purtroppo, non conoscendolo, non ho strumenti per rispondere alla domanda.


In che modo la tua metodologia musicale viene influenza dalla comunità di persone (musicisti e non) con cui collabori? Modifichi il tuo approccio in relazione a quello che direttamente o indirettamente ricevi da loro? Se ascolti una diversa interpretazione di un brano da te già suonato e che vuoi eseguire tieni conto di questo ascolto o preferisci procedere in totale indipendenza?


La mia metodologia è fortemente influenzata dalle persone con cui entro in contatto. Ogni esperienza ha un suo peso sulle mie scelte interpretative. E credo che sia questa permeabilità a dare un’individualità al mio suono e a permetterne la crescita: il percorso che ognuno di noi percorre è unico e unica è l’esperienza che si ottiene.

Anche l’ascolto di interpretazioni precedenti di un brano influenza il mio lavoro e lo ritengo fondamentale. Da questo punto di vista ho però una maggiore esperienza da un punto di vista collettivo, di gruppo, che individuale. Con i due trio Raw Frame e Swedish Mobilia è prassi lavorare in questo modo. Anche se i principi su cui si basano i due progetti sono differenti (Raw Frame ha un repertorio di brani originali mentre Swedish Mobilia è libera improvvisazione) la registrazione delle prove e l’ascolto costante del materiale ci permette di essere molto critici sul lavoro fatto e di raggiungere un suono definito e riconoscibile. E quando capita di non vedersi per mesi, l’ascolto delle registrazioni fatte è il punto dal quale si riparte, anche se non si riparte necessariamente nella stessa direzione.


Ho, a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico, nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di una visione uniforme? Di una “globalizzazione” musicale?

Non ho un’opinione chiara a questo proposito. Pensando al mio percorso vedo di aver cambiato diverse volte punto di vista rispetto al ruolo e al significato che hanno le musiche del passato e le musiche del presente. Non credo di avere sufficienti elementi critici per potermi esprimere riguardo l’interesse della nostra epoca per il decorso cronologico della storia della musica.

Ci consigli cinque dischi per te indispensabili, da avere sempre con se.. i classici cinque dischi per l‘isola deserta..

Se posso permettermi di cambiare leggermente la domanda, ti scriverei i cinque dischi che oggi porterei su un’isola deserta. Non penso di avere cinque dischi indispensabili in assoluto, da avere sempre con me, ma cinque che in questo momento e in quel luogo potrebbero avere una funzione, quelli sì, li ho.

J. S. Bach “Variazioni Goldberg” (Glenn Gould), per perdermi nelle vertigini della forma.

Bill Evans trio “Explorations”, per ricordare che alcuni esseri umani hanno un’anima.

Autechre “Quaristice”, perché ci sono sempre nuovi mondi affascinanti da scoprire.

St Vincent “St Vincent”, per ballare.

Alela Diane “The Pirate’s Gospel”, per accompagnarmi nei momenti di nostalgia.


Quali sono invece i tuoi cinque spartiti indispensabili?


Anche in questo caso, spartiti indispensabili non ne ho. Ma cinque a cui sono affezionato potrebbero essere questi:

Donna Lee, dall’Omnibook di Charlie Parker

Invenzione n. 8, J. S. Bach

Capriccio 24, N. Paganini

Krakovia, D. Frati

De Lachende Dwerg, M. Mengelberg


Il Blog viene letto anche da giovani neodiplomati e diplomandi, che consigli ti senti di dare a chi, dopo anni di studio, ha deciso di iniziare la carriera di musicista?

L’unico consiglio che mi sento di dare è di cercare di essere il più possibile onesti e sinceri con sé stessi.


Con chi ti piacerebbe suonare e chi ti piacerebbe suonare? Che musiche ascolti di solito?

Ascolto diversi tipi di musica, per piacere e per esigenze di studio. Nelle ultime due o tre settimane ricordo di aver ascoltato diversa musica elettronica di Berio, Maderna, Stockhausen e Xenakis, St. Vincent, Chemical Brothers, Jakob Bro, Donny McCaslin, Tortoise, Mary Halvorson, Cinematic Orchestra, Tim Reynolds, Max Gazzè, Deftones, Dan Auerbach, Explosions In The Sky.

Con chi mi piacerebbe suonare? Così, su due piedi, penso che un nome su tutti possa essere Mary Halvorson.

Quali sono i tuoi prossimi progetti? Su cosa stai lavorando?

Nelle prossime settimane riprenderanno i lavori con tre trio a cui tengo molto: Raw Frame (con Salvatore Satta al basso e Daniele Frati alla batteria), Consulting the Oracle (con Luca Pissavini al contrabbasso e Daniele Frati alla batteria) e la formazione ancora senza nome con Alberto Braida al piano e Daniele Frati alla batteria. Registreremo e faremo qualche concerto, spero. Da qualche tempo sono anche entrato a fare parte del gruppo post-rock Goodbye Kings, secondo disco in cantiere.

Il solo è un progetto sempre aperto e in continua evoluzione, a volte anche solo nei pensieri.

E poi tante altre collaborazioni a cui spero di dare vita, un trio con mie musiche che è nel cassetto da tanto tempo, l’idea di incontrare amici musicisti in giro per l’Europa. Ma se non dormo almeno sette ore a notte divento di cattivo umore, quindi devo per forza prendermi il tempo per fare le cose con il giusto respiro.