Ho visto Otomo Yoshihide e il suo New Jazz Quintet suonare in una tranquilla serata primaverile a Venezia al Teatro Fondamenta Nuove nel maggio 2005. Fu una bella serata, molto intensa, molto carica, ricordo una band affiatata che si muoveva con disinvoltura tra standards, folate di free jazz, rumori e melodie. Mai banali. Quella sera vidi Yoshihide imbracciare e suonare una chitarra, una ES 175, se non ricordo male: fu una bella sorpresa, tutto quello che avevo prima ascoltato di lui riguardava musiche e lavori concepiti tramite lap tops e elettronica, non sapevo dei suoi trascorsi chitarristici.
In realtà scoprii che Yoshihide, compositore, improvvisatore, agitatore della scena radical/impro giapponese, aveva dei seri trascorsi come chitarrista jazz e in gioventù aveva studiato col grande Takayanagi Masayuki. A proposito di questo decano del free jazz giapponese scomparso nel 1991, Julian Cope ha scritto nel suo “Japrogsampler”: “…uno di quei temerari estremi capaci di combinare, in una carriera quarantennale, da una parte virtuosismo e padronanza assoluta della teoria musicale, dall’altra free rock atonale spacca-amplificatori, fonte di ispirazione e incazzature per ogni suo contemporaneo.”
Una definizione impeccabile che non può non riscuotere almeno qualche curiosità al riguardo. Peccato che i suoi dischi siano oggetto di collezionismo sfrenato a costi semplicemente proibitivi, sono anni che sto cercando i suoi lavori chitarristici solitari senza dover ricorrere a un travaso da Fort Knox.
Più semplice andar in cerca dei guitar solo di Yoshihide che sono solo due, il primo intitolato “Guitar Solo performed by Otomo Yoshihide 12th October 2004 @ Shinjuku Pit Inn, Tokyo +1″ uscito nel 2005 per la doubtmusic, mentre pochi giorni fa la stessa casa discografica, diretta da Jun Numata e focalizzata su free improvisation, onkyo e free jazz, ha prodotto il seguito intitolato “Guitar Solo 2015 LEFT”.
Proprio l’acquisto di quest’ultimo cd mi ha spinto a un riascolto mirato del primo disco del 2005, alla ricerca delle differenze, delle somiglianze e, perchè no, dei miei giudizi e delle miei intuizioni di qualche anno fa.
Una delle cose belle della musica è che LEI non cambia, mentre NOI sì. La musica, specialmente se registrata, rimane tale: un attimo concentrato sulla punta della forchetta. Noi cambiamo, maturiamo e riascoltandola variamo i nostri giudizi, le nostre idee e magari così facendo ci accorgiamo meglio del tempo che passa, ma sto divagando.
I due dischi sono per me complementari e possono essere ascoltati in successione, come singoli episodi di un percorso creativo che è tutto in movimento e in crescendo. Entrambi i lavori mettono bene in luce due aspetti della musicalità di Yoshihide: l’ampio e tranquillo respiro dei pezzi suonati con la chitarra acustica e i suoni aspri e “intensi” nei brani suonati con la elettrica. Yoshihide alterna gentili e raffinate atmosfere come quelle di Theme from Canary di Shiota Akihiko e Gomen di Togashi Shin (il nostro musicista sembra essere molto interessato al cinema d’avanguardia giapponese) a veri episodi di terrorismo sonoro come Rig, Roulette e Cylinder. Una della caratteristiche di Yoshihide sembra infatti quella di saper alternare momenti di noise assoluto, atonale e furioso a attimi di melodica quiete, assieme alla capacità di rielaborare in maniera decisamente fuori dai canoni usuali, standard jazz come Mood Indigo, Misty e Lonely Woman di Ornette Coleman.
A proposito di Lonely Woman: se digitate “otomo yoshihide lonely woman” su youtube troverete una bella lista di versioni diverse di questo brano, eseguito sia in solo, che in trio, che in quintetto. Sembra che questo brano sia una presenza fissa nella musica di questo musicista, un tema, una palestra su cui provare, sperimentare, ripartire.
“Guitar Solo performed by Otomo Yoshihide 12th October 2004 @ Shinjuku Pit Inn, Tokyo +1″ si conclude proprio con questo brano, con una coccinella che si posa alla fine del brano sul microfono facendo partire un feedback assolutamente in contrasto con quanto appena finito di suonare, un fatto curioso che Yoshihide ha deciso non solo di lasciare nella registrazione del cd, ma anche di spiegare con delle note di copertina e con un disegno stilizzato nel cd stesso.
Ritroviamo questo brano anche in “Guitar Solo 2015 LEFT” come secondo pezzo del cd, dopo la partenza con Song for Che di Charlie Haden. Se nel primo cd il brano durava più di sette minuti, qui diventa una mezza maratona di oltre quindici minuti! In dieci anni il brano di Ornette Coleman ha cambiato fisionomia, non solo si è dilatato ma si è trasformato da una ballata in qualcosa di molto più complesso, articolato e tortuoso. Forse in un omaggio e in un ricordo implicito al maestro Takayanagi Masayuki, che a questa musica aveva dedicato il titolo di due suoi album, Lonely Woman e Lonely Woman Live. Non a caso in questo ultimo disco Yoshihide suona una Gibson ES-175 che era proprio appartenuta a Masayuki e dedica al suo ex maestro diverse belle parole, in un certo senso riconciliandosi con lui dopo la brusca interruzione dei loro rapporti avvenuta 23 anni fa.
Il disco continua con un altro brano torrenziale, The Blue Kite altri 15 minuti di solo, e da Machi no Hi (2:15), Kyokun I (6:46) e il finale 2020 Tokyo.
Sono due dischi molto particolari: in entrambi si coglie una profonda vena di free jazz, di noise, di desiderio di decostruzione, di portare ancora più avanti i limiti di una avanguardia sincera e caparbia. Come Joe Morris anche Yoshihide fa uno scarso uso di pedali e di effetti, un amplificatore e una chitarra sembrano più che sufficienti per poter esprimere le proprie idee, i propri pensieri e per poter generare tutti i suoni di cui ha bisogno. La sua chitarra è al di fuori dagli standard a cui siamo abituati, non è solo questione di essere rock, metal, jazz o avanguardia: Yoshihide come Derek Bailey, Fred Frith, Joe Morris sa creare un mondo suo, un mondo in continua evoluzione. Aspetterò il prossimo cd.