Intervista con Luca Perciballi
Ciao Luca, come è nato il tuo interesse per la chitarra?
Il mio interesse per la chitarra é nato in modo del tutto inconsapevole e casuale durante i primi anni del liceo. Provengo da una famiglia decisamente poco musicale: nessuno in possesso di educazione musicale di alcun tipo, poca abitudine all’ascolto fra le mura domestiche. Per uno strano caso della vita ho sempre posseduto una tastiera con cui, fin da giovanissimo, ho iniziato a sperimentare e trascrivere (o meglio memorizzare) qualsiasi tipo di musica mi capitasse a tiro!
Ho iniziato la chitarra sulla spinta del mio crescente interesse come ascoltatore, quasi a rispondere ad un irresistibile richiamo interiore che mi portava verso lo strumento, a voler scrivere canzoni, a rendermi in grado di riprodurre quello che sentivo in testa. A ben vedere poco é cambiato da allora!
Qual’è il tuo background musicale? Ho letto il tuo curriculum…è impressionante!
Man mano che la passione inizió a crescere , ebbi l’esigenza di formalizzare e approfondire i primi studi intrapresi in scuole di musica locali, anche in vista per la mia crescente passione per musiche come il jazz e la musica classica. Ecco il perché della mia partecipazione a seminari e masterclass (Siena Jazz, Umbria Jazz, S.Anna Arresi) e della mia iscrizione al ConservatorioA.Boito di Parma, dove mi sono diplomato in Chitarra Jazz e dove ho iniziato il percorso da compositore, completato successivamente con il diploma in quella disciplina. In seguito ho approfondito entrambi i campi con un’esperienza di studio all’estero presso il Codarts di Rotterdam.
Penso che la caratteristica saliente del mio percorso formativo sia proprio l’interesse smodato per due discipline apparentemente distanti quali l’improvvisazione e la composizione rigorosa. Lavoro attivamente in entrambi i campi, pur definendomi principalmente un improvvisatore in qualsiasi situazione: penso che la capacitá di risolvere un problema in tempo reale sia uno strumento imprescindibile anche per la composizione scritta e apra dei canali di pensiero molto interessanti da seguire ed indagare. Penso sia questa dicotomia la principale ragione del mio incontro con Lawrence Butch Morris, l’ideatore del metodo di composizione gestuale Conduction, di cui sono stato allievo e amico per un buon numero di anni. Da lui ho appreso moltissimo in qualsiasi campo musicale e umano: mi ha insegnato che la distinzione concettuale fra improvvisazione e composizione di fatto non esiste. Ovviamente le due discipline hanno tempi e contesti operativi differenti ma il risultato finale puó sempre essere chiamato “musica”.
Con che chitarre suoni e hai suonato?
A differenza della maggior parte dei chitarristi elettrici non sono un feticista dello strumento, non ho smanie da collezionista e non passo la maggior parte del mio tempo a discutere di chitarre.
Scelgo pochissimi strumenti che tratto con la fedeltá dell’innamorato e a cui dedico attenzioni esclusive.
Attualmente posseggo solo due chitarre: una Fender Telecaster e una Gibson 335 del 1978. Il mio amore del momento é questa particolare Telecaster bianca, stranamente realizzata in legno di pino centenario. Dal primo momento in cui mi é stata messa in mano ho potuto sentire un feeling straordinario con lo strumento: suono molto potente e diretto, comoditá del manico ed estetica rassicurante. Sono 5 anni che suono esclusivamente questo strumento, dopo quasi 7 di esclusiva sulla 335, strumento meraviglioso e signorile che peró non é molto adatto a supportare le scelte timbriche della mia attuale fase musicale. Prima di questi ci sono state altre chitarre ovviamente, ma questi sono i miei amori strumentali.
Che tipo di effetti usi quando suoni? Hai una pedaliera particolare?
Io mi sento in tutto e per tutto un chitarrista elettrico, di conseguenza gli effetti e tutta la catena di processo del suono sono una parte essenziale del mio essere musicista, una parte dello strumento come il corpo lo é perla voce di un cantante. Anche io mio suono “pulito” é costantemente processato da booster di segnale, riverberi ed equalizzatori. Uso il pedale del volume come un controllo di espressione, a simulare i modi di uno strumento a fiato, e stesso dicasi per la distorsione. Tutti gli altri effetti (delay, modulazioni, filtri) servono ad arricchire la mia tavolozza sonora e rendermi in grado di inseguire un suono, un’immagine sonora che mi porto dentro:
penso che un tipo di approccio timbrico molto esteso sia essenziale per il musicista contemporaneo.
In alcuni progetti, come il duo multimediale Fragile con il pittore Mattia Scappini, faccio un uso esteso di campionatori, looper, utilizzando la chitarra come una sorgente di segnale piú che come uno strumento tradizionalmente inteso.
Utilizzo anche alcuni oggetti come forcine, bicchieri di plastica o molle per preparare lo strumento ed ottenere sonoritá percussive: penso che tutto sia lecito purché analogico, manipolabile a mano, tangibile. Utilizzo spesso il computer e i sequencer digitali nel mio lavoro di compositore ma come performer ho bisogno del contatto fisico con la produzione sonora che solo oggetti “veri” possono dare: il pensiero viene inevitabilmente modificato dai mezzi utilizzati per metterlo in pratica e, con gli anni, ho notato di avere bisogno di un approccio artigianale, manuale alla costruzione sonora.
Come è nata l’idea di un lavoro in solo come “How to kill complex numbers” e come mai la scelta di quel titolo?
How to kill complex numbers é un progetto che porto avanti dal 2015 anno in cui l’esigenza di suonare in solo, come sfida personale e come privilegiato campo di ricerca su me stesso e il mio strumento, si é rivelata inevitabile. Ho pigramente e timidamente iniziato a tenere i primi concerti (totalmente improvvisati) senza pormi altro problema se non quello di osservare cosa accadeva.
Nel 2016 alcuni eventi hanno portato alla definitiva formalizzazione del progetto: da una parte alcuni eventi personali e affettivi che hanno portato benessere e serenitá nella mia vita, dall’altra la vittoria del Premio Internazionale Giorgio Gaslini. Sulla spinta del riconoscimento ottenuto ho realizzato e concepito la musica di How to kill complex numbers in una settimana: negli anni ho imparato che ho bisogno di anni per stratificare pensieri e concetti che, in modo apparentemente incosapevole, arrivo a buttar fuori in tempi brevissimi, senza darmi il modo di meditare troppo sulle mie continue ansie e paure. Da una parte ho formalizzato gli elementi emersi durante le performance improvvisate e dall’altra ho scritto strutture musicali che potessero darmi nuovi spunti di sviluppo di quelli che sono i miei materiali: il suono come elemento strutturale e il ritmo come personaggio di un’azione drammaturgica.
Il riferimento ai numeri complessi deriva dalla loro affascinante caratteristica di essere composti di una parte reale e di una parte immaginaria: tradotto in termini piú letterari e meno rigorosi richiama
il dualismo tra scrittura rigorosa e improvisazione, tra vita personale (teatralmente esemplificata dai titoli dei brani) e musica assoluta, tra anima logica e istinto viscerale. Il volerli metaforicamente uccidere significa la volontá di superare le proprie visioni ed i propri limiti per permettere alle cose (idee, creazini, materiali) di esistere in quanto tali, come un essere vivente che non ha altro da offrire se non se stesso.
Quale significato ha l’improvvisazione nella tua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?
Penso che l’improvvisazione sia il cuore della mia ricerca ed il principale mezzo a cui ricorro per lo sviluppo di idee musicali. Questo vale anche per la composizione, che io affronto con animo improvvisativo, come il Ligeti dei suoi ultimi lavori. Questo non significa che io non ricorro a pianificazioni preliminari e molto accurate, ma che spesso organizzo il materiale e mi diverto a guardare come si trasforma liberamente grazie alle caratteristiche strutturali che esso stesso porta con sé.
Qual’è il ruolo dell’errore nella tua visione musicale?
Verrebbe da dire che ha lo stesso valore che ha nella vita quotidiana: qualcosa di inevitabile, insito nella natura delle cose stesse e dei processi. É necessario abbracciare l’errore proprio perché inevitabile, solo in questo modo esso puó trasformarsi in un terreno fertile per la germinazione di idee nuove ed inaspettate.
Ci consigli cinque dischi per te indispensabili, da avere sempre con se.. i classici cinque dischi per l‘isola deserta…..
Domanda sempre dolorosa, perché é troppo difficile scegliere. Si ha paura di tralasciare qualcosa o di definirsi troppo scegliendo. Se devo proprio strappare il cerotto:
Paul Bley with Gary Peacock
Big Satan: Live in cognito
La sonata n20 di Franz Schubert fatta da Ashkenazy
Il concerto per violino di Ligeti fatto dall’ensemble Intercontemporain
Porgy and Bess di Miles Davis
Quali sono i tuoi prossimi progetti? Su cosa stai lavorando?
Attualmente sto preparando l’uscita del mio duo con Ivan Valentini, immenso musicista modenese: il duo si chiama The Black Box Theory e lavora sull’improvvisazione totale. Sto inoltre scrivendo un po’ di musica per il mio trio storico, gli Slanting Dots. Di recente formazione é il duo con Riccardo la Foresta alla batteria dove lavoreremo su componimenti di poeti che amo molto quali Celan, Dylan Thomas e la Dickinson. Continuo l’attivitá dal vivo in solo e con il duo Fragile, riuscendo comunque a trovare il tempo per la scrittura di musica per il teatro, la danza e il cinema.
Senti.. qualche anno fa ho letto un bel libro di Bill Milkowski intitolato “Rockers, Jazzbos and Visionaries”. Carlos Santana a un certo punto gli ha risposto che: “Some people have talent, some people have vision. And vision is more important then talent, obviously.”…qual’è la tua visione?
Penso che se lo sapessi veramente non sarebbe piú interessante perseguirla, ma se devo scegliere veramente vorrei poter creare un suono che possiede la piú basilare qualitá di un quadro o di una qualsiasi opera pittorica: la superficie. Un suono che esiste, che é tangibile al punto di poterlo toccare.