
John Zorn: possibili esempi di stile tardo
No sense of harmony, no sense of time
Don’t mention harmony, say
“What is it? What is it? What is it?”
Give a little shock, and he raises his hand
Somebody shouts out, says
“What is it? What is it? What is it?”
Talking Heads, Blind
E’ possibile trovare in John Zorn degli esempi di quello che Edward Said ha definito nella sua raccolta di saggi postuma “ Sullo stile tardo”? E’ da diverso tempo che mi pongo questa domanda, a partire da quando, una decina di anni fa comprai il cd “Masada Guitars”, Volume One della serie di cd volti a commemorare i primi dieci anni del songbook Masada, da cui erano state le musiche di quel super quartetto che prevedeva Zorn, Joey Baron, Greg Cohen e Dave Douglas. Quel disco mi sembrò un po’ diverso da quelli prodotti fino ad allora da bulimico compositore/improvvisatore newyorkese e ad esso si sono aggiunti altri dischi tutti caratterizzati da una marcata impronta melodica, dalla predominanza delle chitarre e dal recupero e utilizzo di stili con una impronta quasi post-modernista. Ma prima di addentrarci in questa discografia selezionata (solo 5 dischi, una goccia nel mare discografico zorniano) cerchiamo di capire cosa si può intendere per “stile tardo”.

All’inizio di tutto c’è la ingombrante e importante figura di Theodor W. Adorno, che attorno al 1934, stava progettando un libro sull’esperienza musicale ed estetica di Beethoven. Negli appunti per la stesura, l’oggetto di analisi andava sempre più delineandosi come una riflessione sulla natura delle opere artistiche della vecchiaia. In esse – e dunque negli ultimi quartetti del compositore, nelle ultime sonate per pianoforte o nella magnifica Missa solemnis – Adorno leggeva il loro carattere corrugato, dilaniato, frastagliato e disarmonico. Vi leggeva anche una rivolta senile alla tradizione e all’imposizione dei canoni, alla norma assunta come crisma di un’affiliazione alla grande cultura riconosciuta: insomma, le opere tarde, per il filosofo, consegnano al lettore o all’ascoltatore una ribellione soggettiva nei confronti delle convenzioni, che le rende, per questo motivo, aggressive e inconciliate, contrastive e antiretoriche. L’intellettuale arabo-americano Edward W. Said, scomparso nel 2003, noto al grande pubblico per il suo impegno a favore della causa palestinese e per i suoi studi postcoloniali, riprende queste tematiche nella sua raccolta di saggi postuma Sullo stile tardo”, dove Said allarga il campo di indagine iniziato da Adorno parlando di Stile tardo come di una sorta di esilio autoimposto da ciò che è generalmente accettabile, viene dopo di esso e sopravvive oltre, come un qualcosa che è dentro il presente, ma allo stesso tempo ne è stranamente separato. Una sorta di autoesilio stilistico autoimpostasi dall’autore stesso al di fuori dei luoghi comuni e dai cliché autoimposti dalla passato e dalla statura e struttura finora rappresentata dall’autore stesso, una critica nei confronti stessa della società, un ribaltamento delle consuetudini stilistiche, una rimessa in discussione personale, una condizione di straniamento e spossessamento, di esclusione e minorità, una forma praticata con astuzia e rivendicata, magari, addirittura con orgoglio.
Ma cosa ha a che vedere con queste analisi estetiche un compositore/improvvisatore come Zorn? La figura di Zorn è stata più volta accusata e letta in chiave postmoderna data la sua famelica capacità di rielaborazione e riproposizione di stili diversi in contesti nuovi. Come Zappa, Zorn è un acuto e abile manipolatore di strutture stilistiche, che riesce a incrociare e fondere tra loro con velocità e accostamenti che possono risultare , a seconda dell’ascoltatore, stranianti, choccanti e anche derisorie. Questi cinque dischi rappresentano una sorta di produzione musicale a se stante dal resto del comunque variegato corpus zorniano e sono uniti da alcuni fili stilistici che mi fanno pensare alla presenza di una sorta di Stile tardo all’interno delle unità stilistiche zorniane.
Cominciamo dal 2003 John Zorn, in occasione del decennale dell’inizio della composizione del repertorio Masada, aveva partorito l’ennesima serie tematica della sua etichetta Tzadik, la Masada 10th Anniversary, dedicata appunto alla celebrazione di questo”canzoniere” importantissimo. Masada Guitars fa parte di questo progetto autocelebrativo e comprende ventuno composizioni rese in versioni per sola chitarra acustica. I tre chitarristi che a turno affrontano i temi scritti da Zorn sono Bill Frisell, collaboratore del sassofonista in numerosi progetti musicali del passato (vedi Naked City); Marc Ribot, che aveva già preso parte ad altre incisioni Masada (su tutte bar Kokba), e soprattutto ha pubblicato per la Tzadik The Book of Heads e il meno noto Tim Sparks, proveniente dal mondo della chitarra acustica fingerpicking, e autore di tre notevoli CD per la Tzadik nei quali affronta il mondo della musica klezmer.
Ciascuno dei tre interpreta la musica di Zorn arrangiandone i temi secondo un approccio chitarristico personale, nel quale è possibile distinguere le loro caratteristiche tecniche e stilistiche. Sparks, è particolarmente brillante nel fingerpicking, con molte reminescenze di John Fahey (citato da Zorn nelle note di copertina) e direi Stefan Grossman, con una tecnica armonicamente ricca e ritmicamente complessa, magistralmente esibita nel brano Sippur. Ribot si conferma essenziale, quasi scheletrico nell’esecuzione dei brani, quasi scarnificandone i temi, mettendone a nudo l’essere in maniera molto efficace. Bill Frisell, decisamente in gran forma, è l’unico a utilizzare anche la chitarra elettrica oltre allo strumento acustico e a ricorrere in alcuni casi alla sovraincisione, sempre con quel suo approccio “laterale”, un po’ straniante. Questo disco esce dai canoni del “solito” Zorn aspro, violento e dissonante, la musica scorre piacevole e orecchiabile anche per chi non ha mai avuto dimestichezza col sassofonista compositore newyorkese, chi invece ha già dimestichezza con il progetto Masada apprezzerà la bellezza delle riedizioni chitarristiche di questi brani già ascoltati in altri ambiti (quartetto jazz, ensemble cameristico, acustic trio). Questo disco comincia a mostrare qualcosa di diverso: una semplificazione nello stile ottenuta tramite l’uso della chitarra, Zorn è assente e delega la rappresentazione delle sue musiche a tre interpreti molto capaci e ben a conoscenza dei suoi stili e delle sue caratteristiche compositive e improvvisative, deleghe importanti anche perchè i tre sono ben noti per avere ciascuno un proprio inconfondibile stile che non viene annullato nelle musiche di Zorn.


Per ritrovare una situazione simile, ma diversamente strutturata dobbiamo aspettare il 2012 e il 2013 con una nuova seri di cd intitolata “Mystic Series”. In questa nuova serie troviamo due cd, “The Gnostic Preludes” del 2012 e “The Mysteries” del 2013, entrambi eseguiti dallo stesso trio, ovvero Bill Frisell all chitarra elettrica, Carol Emanuel all’arpa e da Kenny Wollesen al vibrafono.
Qui Zorn lascia le strutture più aperte delle composizioni Masada per delle linee più definite. Parliamo di preludi, di danze, eseguiti da un trio insolito e di estrazione non-classica, dalla forma ancora più minimale. Parliamo di forme molto più definite, dalla struttura classica, quasi neoclassica. Il salto di qualità è evidente, la domanda è se sia un ritorno a una classicità che Zorn fino a quel momento aveva palesemente ignorato. Si tratta, ovviamente, di dischi molto validi, ben curati e prodotti e dal packaging stupendo. Zorn non sbaglia insomma. Qui fa un uso semplicemente spregiudicato della melodia, tutti i brani sono apparentemente semplici, con i tre strumenti che si ripetono a turno, intrecciando tra loro i medesimi motivi e a turno discostandosene eseguendo digressioni personali che alla fine si riuniscono nella struttura dei brani. Ma come mai? Il desiderio di esplorare nuove strade? Di andare controcorrente?

Domande che ritroviamo nel 2017 quando esce un nuovo disco, Zorn produce almeno una decina di cd all’anno, “Midsummer Moods” con una coppia inedita di chitarristi Gyan Riley e Julian Lage. Un nuovo ritorno alla musica “pastorale”. Qualcosa di intimo, speciale, ammaliante, commovente e emotivo. In una parola: bello. Riley è ormai di casa per la Tzadik, mentre Julian Lage, uno dei migliori chitarristi jazz attualmente a nostra disposizione, è una new entry.
Entrambi si confermano una coppia davvero notevole nell’esecuzione e interpretazione di questi nuovi duetti composti da Zorn, ispirati dalle visioni shakesperiane della luna. Nelle note che accompagnano il cd, Zorn scrive: “For millennia the moon has been a subject of deep fascination— a symbol of love, lust, madness and dreams. More than a passive observer, it is a powerful force whose brilliant luminosity exerts an intoxicating effect upon the winds, the tides, our emotions and more. This dark and moody CD of music inspired by Shakespearian Lunar imagery features ten lyrical compositions evoking the magic of Sister Moon. Stunningly performedby two of the most fabulous new guitarists working today—Julian Lage and Gyan Riley, this is a beautiful and heartfelt program of music for late night contemplation on a romantic midsummer evening. “ I riferimenti qui sono palesemente classici, rinascimentali, il modello è John Dowland. Un salto nei secoli quindi, un riferimento post modernista? Un nuovo stile aggiunto alla collezione? Perché un compositore ultra contemporaneo e attuale come Zorn ha bisogno di recuperare uno stile così ben noto e di lasciarsi ispirare romanticamente dalla luna? Proprio lui, il classico pragmatico workaholic newyorkese?

La risposta finale potrebbe (scrivo potrebbe perché con Zorn le porte sono aperte a ogni possibile lettura e interpretazione) arrivare dal recente (2018) “Chesed”, quarto capitolo del monumentale cd, “The Book Beri’ah”, box dedicato all’ultimo libro di composizioni su temi ebraici di Zorn e sua ultima sfortunata avventura commerciale. Qui ritroviamo Julian Lage e Gyan Riley, che dimostrano ancora una volta il loro affiatamento e la loro bravura. Alla luce di quanto ci siamo detti prima, come suona questo disco? Suona post-moderno. La raccolta di stili che Zorn è riuscita a sommare in questo lavoro è impressionante.
Non riesco a capire se si tratta di un tuffo nel suo passato, tracciando un significativo parallelo con opere corali, come Spillane e Godard, oppure una dimostrazione di “stile tardo” come la intendeva Said? Come una forma di resistenza e di dimostrazione di impegno artistico al di fuori dei tempi correnti? E’ difficile trovare una risposta, ma in questo disco si ritrovano, attentamente integrati tra loro tutta una serie di stili e di soluzioni già adottati in passato da Zorn e dove nulla viene lasciato al caso. Oppure in questo possibile caso,” possiamo definire come “Stile tardo” un’altra forma di rifiuto, quella di accettare e seguire uno stile unico, il rifiuto di identificarsi in una sola corrente stilistica, di usare qualsiasi stile a disposizione e di uscire da una visione storica, progressiva della creatività? Aspettiamo la prossima mossa e il prossimo cd.