http://cstrecords.com/artist/godspeed-you-black-emperor/
https://godspeedyoublackemperor.bandcamp.com/
Non uso né il termine band ne quello di ensemble per cercare una definizione per i Godspeed You! Black Emperor. Non cerco neanche una definizione di comodo. La loro predisposizione ad andare contro ogni logica presente nel panorama musicale, il loro modo di presentarsi con email chilometriche simili a manifesti musicali, i loro numerosissimi progetti collaterali e la loro totale mancanza di qualsiasi forma di accondiscendenza verso il mercato musicale li rendono un fenomeno interessante e degno di attenzione. Le poche cose certe di questo collettivo canadese, composto da ben nove musicisti, sono le loro particolari scelte musicali:
1) nei loro dischi non ci sono vere e proprie parti cantate, ma le voci ci sono ugualmente, sfuggevoli, spesso recitanti in un inglese rantolante e incomprensibile, fredde e cupe;
2) i loro brani superano frequentemente i quindici minuti, con momenti epici che sfociano in digressioni rabbiose che si pongono in un incrocio tra la cavalcate cosmiche degli Hawkwind, le suite progressive e le tempeste sonore di Glenn Branca;
3) un certo gusto cinestetico molto simile alle colonne sonore oscure di Morricone, quelle collegate ai film di serie B softporno e di polizia violenta degli anni ’60 e ’70;
4) l’epica che riescono a inserire in ogni brano. A volte partono lenti, con nenie cadenzate dal violoncello per poi esplodere in una onda sonora energetica a dir poco elettrizzante che fa loro perdonare qualche mancanza nella costruzione armonica dei brani;
5) il particolare layout dei loro cd. I loro libretti le stesse confezioni cartonate denotano un gusto particolare per un certo design dall’aria apparentemente sciatta e casuale, ma che tradisce invece uno studio attento e una intelligente rielaborazione di immagini sfocate in bianco e nero, testi battuti su una vecchia macchina da scrivere, carta da pacchi o semitrasparente.
Un look finto povero che condividono con tutte le release della loro casa discografica, la Constellation che da tempo continua a sfornare dischi sempre interessanti, magari di non facile ascolto o catalogazione, ma sempre appaganti. Hauntology? No, non credo. Semmai una forma complessa di rielaborazione di contenuti D.I.Y tipici di una scena punk ormai consumata nella sua leggenda, rinvigorita in chiave post moderna da esperti di grafica che sembrano usciti dai romanzi di William Gibson. E che sanno raggiungere un pubblico specifico. Una sorta di élite culturale del rock.
Formatasi nel 1994, la band debutta quello stesso anno con una cassetta a tiratura limitata “All Lights Fucked On The Holy Amp Drooling”, ma il primo vero album è datato 1997, con lo splendido “F#A#Infinity”, distribuito inizialmente su vinile dalla loro piccola etichetta canadese Constellation, per poi avere una diffusione più ampia grazie alla Kranky nel 1998. Si nota subito la particolarità del gruppo: i brani sono soltanto tre, tutti lunghissimi a partire dai quindici minuti di “The Dead Flag Blues”, dove si possono notare similitudini con i Labradford di Mark Nelson.
Ma è il secondo pezzo, l’affascinante “East Hastings”, che regala diciassette minuti di emozioni, con un’apertura contraddistinta da rumori di traffico (sarà quello di Montreal?) e un successivo alternarsi di istanti lievi e altri in violento crescendo. Il brano che conclude il primo album è “Providence”: mezz’ora di follia musicale, priva, almeno apparentemente, di senso logico. L’aspetto orchestrale, non a caso ho citato prima Morricone, sovrasta spesso il tutto, ma è geniale. Non di facile ascolto, alternandosi con suoni e rumori grezzi trattati anche elettronicamente di chiara matrice “concrete”.
Nel 1999 esce l’Ep “Slow Riot For New Zero Kanada”, uscito sempre per la Kranky, con cui il gruppo conferma in pieno le aspettative creatasi con il primo album. Un gioiello. Ventotto solo minuti è la sua durata complessiva per due soli titoli: “Moya”, brano che inizia lentamente, con archi che disegnano affreschi eterei per poi sfociare in un impetuoso crescendo epico, e “Blaise Baylei Finnegan”, traccia di diciassette minuti che, dopo un apertura “parlata”, esplode in un pazzesco delirio strumentale con chitarre, violini e archi.
Musica propulsiva, epica, intensa, con una energia totale e dalla comunicatività assoluta. Suggestivi, intransigenti e indeterminati i Godspeed realizzano qui uno dei loro lavori migliori e sicuramente il primo che bisogna comprare per incominciare a conoscere questo collettivo.
Nel 2000 esce “Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven” , sempre per la Kranky e Constellation, un doppio cd composto da quattro tracce divise in sezioni (indispensabile per orientarsi il diagramma a blocchi incluso nell’album di chiara iconografia darmstadtiana) che prosegue nella strada dell’ensemble rock, ma che tradisce una più profonda impostazione legata alla musica cinematografica. “Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven” è più una colonna sonora ambient/noise/psichedelica che un album rock. Atmosfere tetre, graffiate da ritmi scuri e decisamente claustrofobici, caratterizzano questo lavoro decisamente malinconico, anche se forse meno gotico rispetto ai precedenti, ma con una maggiore presenza di archi e violini che ne modellano le atmosfere sempre anarcoidi lontane dal gusto delle grandi platee.
Forse il loro disco meno creativo e originale, “Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven” soffre di una certa dispersione dei temi, di qualche tediosa ripetizione e della vera mancanza di un fulcro emotivo in cui condensare e scaricare la grande energia profusa dal collettivo. Il vero potenziale della band si mostra solo nell’ultimo brano (il più sperimentale). “Antennas to Heaven” apre con il campionamento di un pezzo folk e offre poi un rarefatto collage di rumori. Alla fine di un lungo viaggio attraverso i meandri di un pensiero “alterato”, una tenera melodia sorge dalle ceneri dell’armonia.
I Godspeed You! Black Emperor tornano nel 2002 spostando l’esclamativo sulla seconda parola, con Yanqui U.X.O. titolo enigmatico che più o meno suona come “Cluster Bombe inesplose americane”. Le atmosfere sono più cupe, le loro composizioni attraversano, al solito, un folk-blues molto dilatato, rock cosmico, Morricone e psichedelia. Decisamente autoreferenziali nella seconda traccia “Rockets fall in Rocket Falls”, che inizia con il solito giro di chitarra attorno al quale ruotano gli altri strumenti, fino a che la musica diventa più minacciosa con dei tamburi e dei fiati a realizzare un’atmosfera da pre-battaglia campale, fino alla prevedibile esplosione finale. E’ un disco che sancisce una raggiunta maturità artistica e musicale dove negli altri due brani, due suite, i nostri realizzano delle atmosfere spesso imperniate su un folk-blues apocalittico come nell’iniziale “09-15-00” (data di inizio della seconda Intifada), dove gli strumenti dipingono un quadro desolato e frammentato, e lo sviluppo del pezzo dona una forza maggiore all’aspetto evocativo della musica, e soprattutto nell’altra suite finale “Motherfucker = Redimeer”, che vede la musica come andare in frantumi, evocando scenari post-bellici. E’ il momento più suggestivo dell’album, prima della potente ultima parte, forse il pezzo più “rock” mai realizzato dal collettivo canadese, trascinante e catartico.
…… poi il silenzio … nessun nuovo disco … voci scoordinate di un possibile scioglimento … la proliferazione di una serie di progetti alternativi ad opera dei componenti: cose belle e intelligenti come gli Exaustus, i Silver Mount Zion, tutti meritevoli di una approfondimento a parte …
“Non ci sentiamo parte di nessuna comunità musicale, nemmeno di una strumentale – afferma il bassista, Mauro Pezzente -. Anzi riteniamo preoccupante che parecchi gruppi possano apparire simili a noi. E’ sintomatica del fatto che non c’è un vero movimento di progressione, di cambiamento”. Impossibile non condividere.
To be continued….