Come definire lo stile di Blind Willie Johnson? Gospel o Blues? Bella domanda, dal punto di vista formale infatti la sua musica e il suo modo di cantare possono esser considerati blues, ma i testi delle sue canzoni derivano direttamente dagli spirituals e dagli inni, sono parabole bibliche, preghiere, invocazioni al Signore.
La storia di quest’uomo racconta una vita di stenti e scarse e molto effimere soddisfazioni, simile a quella di tanti altri bluesmen. Nato a Marlin, Texas, nel 1902, Willie rimase cieco a sette anni in seguito a una lite tra il padre e la donna che questi aveva sposato dopo la morte della prima moglie: la matrigna, scoperta a letto con un altro uomo, gettò verso il marito un catino pieno di soda caustica ma per errore prese lui, che perse la vista per sempre. La musica fu la sua consolazione e la sua vita: il bambino imparò a suonare la chitarra accompagnando i cori della chiesa battista, confessione che nel 1925 abbracciò anche come predicatore. Nel Giugno 1927 si sposò con una ragazza incontrata a Dallas, Angeline Robinson, che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Blind Willie Johnson fece le sue prime registrazioni il 3 Dicembre del 1927, una session, nella quale incise sei pezzi passati alla storia: If I Had My Way, Mother’s Children Have a Hard Time, It’s Nobody’s Fault But Mine, Jesus Make Up My Dying Bed, I Know His Blood Can Make Me Whole e Dark Was The Night – Cold Was The Ground.
Johnson fece altre session, per un totale di 30 pezzi che ebbero un buon successo di vendite; ma dopo il 1930, pur continuando a suonare per le strade delle città del Texas, non incise più nulla. Nei primi anni ’40 si spostò a vivere a Beaumont, dove nel 1947 (alcune fonti dicono 1949) la sua casa andò a fuoco e lui e la moglie, non avendo altri posti dove andare, furono costretti a dormire all’ addiaccio per una settimana. Quando finalmente riuscirono a trovare una sistemazione al coperto in una chiesa battista era ormai troppo tardi; la polmonite di cui si era alato portò Willie rapidamente alla morte. Gli ospedali non accettavano neri che non fossero in grado di pagare.
E’ di Dark Was The Night – Cold Was The Ground che mi interessa parlare. Johnson scrisse canzoni bellissime e seppe interpretare e fondere il gospel e il blues come nessun altro prima e dopo. Soprattutto seppe creare una musica ancora oggi straordinariamente attuale e che ha saputo ispirare musicisti, scrittori e registi di ambiti diversissimi. Dark Was The Night – Cold Was The Ground è riuscita addirittura a superare i confini del tempo per arrivare – letteralmente – oltre il nostro Sistema Solare. Volete sapere la storia che c’è dietro? Quando nel 1977 venne spedita nello spazio la navicella Voyager 1, destinata a vagare senza una meta stabilita e contenente materiali diversi del nostro pianeta destinati a possibili incontri con altre intelligenze dell’universo, l’astronomo Carl Sagan pensò di inviare anche musiche che potessero dare un’idea dell’arte creata dagli esseri umani. Assieme a suoni etnici registrati live e provenienti da tutto il pianeta, Sagan inserì la Quinta di Beethoven, il Flauto Magico di Mozart, uno dei Concerti Brandeburghesi di Bach, la Sagra della Primavera di Stravinsky e tre sole canzoni provenienti dal mondo pop: Johnny B. Goode di Chuck Berry, Melancholy Blues di Louis Armstrong e Dark Was The Night – Cold Was The Ground di Blind Willie Johnson. Sagan lo scelse perché a suo avviso rappresentava meglio di qualunque altro “il sentimento religioso degli esseri umani e la loro incessante ricerca di una comunicazione con Dio”. Stefano Isidoro Bianchi scrive nel suo libro “Prewar Folk” che questa canzone è basata “sull’inno “Dark Was The Night and Cold Was The Ground on Which Our Lord Was Laid, una meditazione sulla crocifissione di Cristo che nell’interpretazione di Willie divenne uno strumentale di lacerante intensità, nel quale il musicista limitava le parti vocali agli ‘humming and moaning’ tipici dei field rollers riservando ai suoni della slide le parti della melodia. Un capolavoro imperituro, un pezzo unanimemente considerato uno dei luoghi topici e strategici di tutta la vicenda musicale americana.”
Dark Was The Night – Cold Was The Ground è un primo esempio di blues che va oltre ai confini del suo genere, no è solo un brano che sa cogliere esteticamente e emotivamente l’emozione pura, ma è il primo e unico esempio di gospel che trascende la parola per diventare puro suono. Una tentazione troppo grande per i musicisti arrivati in tempi postmoderni. Pensateci su, questo brano non ha una struttura, non ha una frase costante, non ha un ritornello: è un flusso indefinito e incostante di colpi di slide e chitarra intensi e doloranti. Credo che all’epoca in cui venne composta ebbe un effetto rivoluzionario. E’ una canzone a se stante, con una forma indefinita e informe che anticipava molta della musica improvvisata di oggi, un pezzo che viveva in una dimensione così nuova da restare un irripetibile punto interrogativo per molti decenni ancora.
Un brano che è diventato leggendario, così come è diventato una leggenda un altro chitarrista blues, anche lui cieco: Blind Joe Death. Di lui si sanno poche cose, tutte tramandate da un altro chitarrista che era stato inizialmente ispirato proprio da Blind Willie Johnson, tale John Fahey.
Figlio di un impiegato del servizio sanitario americano che divorziò dalla moglie quando John era ancora bambino, Fahey trascorse gli anni più significativi della sua adolescenza a Takoma Park, nel Maryland, rimanendo per ore incollato di fronte alla radio della madre che trasmetteva selezioni di jazz, country e folk. Nel 1954, ebbe una prima illuminazione ascoltando la versione di Bill Monroe del brano di Jimmie Rodgers “Blue Yodel No. 7” ed cominciò ad approfondire il suo interesse per la musica iniziando a collezionare dischi country, hillibilly, gospel e jazz e comprando una chitarra. Nel corso dei successivi cinque anni, dopo aver militato come chitarrista in alcune band bluegrass, si avvicina sempre di più al blues ed inizia ad arricchire la propria tecnica chitarristica sviluppando le sue idee di rielaborazione e non di semplice “trascrittura” dei classici traditionals, finchè nel 1959 decide di stampare il suo primo disco, “Blind Joe Death, presso la RCA Custom Recorders in un edizione di sole 100 copie pagate col suo lavoro ad una pompa di benzina. Una facciata è firmata a nome John Fahey, l’altra è accreditata ad un fantomatico e leggendario bluesman chiamato Blind Joe Dead ma in realtà si tratta del suo pseudonimo. La trovata non è che la prima di una lunga serie di invenzioni, falsi storici, oscure referenze e assurde leggende che Fahey ha disseminato in modo postmodernista sulle note di copertina di quasi tutti i suoi albums.
Il lavoro di Fahey e Blind Joe Dead non trova particolari riscontri. Però qualcosa si muove. Nell’aprile del 1964, Norman Pierce e Ed Denson, titolari della Takoma Records, provvedono a riregistrare in parte questo suo primo album che nel ’67 verrà ripubblicato con una nuova stesura in stereo. Nel 1996 esce un’ inappuntabile ristampa in cd, titolo “The Legend of Blind Joe Death”, che contiene l’intera stesura della seconda e terza edizione mentre mancano sei brani della prima (la
RCA distruggeva tutti i masters che non erano riutilizzati entro un anno). Un piccolo capolavoro con 26 tracce che mostra come la costante evoluzione dello stile di Fahey: acerbo e un po’ incerto sull’incisione del 1959, scintillante ed nervoso in quella del 1967. In realtà è musica di avanguardia e Fahey è una spanna avanti a tutti i suoi contemporanei, ancora troppo legati alle radici del bluegrass. Il disco darà il via ad una generazione di chitarristi acustici (Basho, Kottke, Lang … ) che sapranno però cavalcare il successo, a volte salendo sule spalle dello stesso Fahey.
2015. Un altro Blind torna a portare una immagine post moderna del folk e del blues. Si tratta di Blind Sun, bluesman e improvvisatore postmoderno le cui origini sono ignote. Non si sa chi sia. Non si sa da dove venga. Si sa solo che è stato redento dalla Fede e illuminato dal Signore. Il suo disco si intitola “New Century Christology” e i suoi brani fanno riferimento a una complessa cosmologia: l’urgenza del blues e il piacere del fingerpicking, la polvere e le distanze di una strada americana, il viaggio inteso come esperienza di vita, la vita come espiazione.
Il suono. Un suono che sa di distanza, di echo, di desiderio. In realtà anche qui si gioca con la citazione e la moltiplicazione dell’immaginario, Blind Sun è a sua volta lo pseudonimo usato dal chitarrista italiano Stefano Pilia per una personale rielaborazione dei miti di Blind Willie Johnson e di Blind Joe Death, una personale rielaborazione a favore di un suono ammaliante che va oltre alle sue caratteristiche fisiche per diventare un’impronta semiotica, metafisica. Il suono di Blind Sun è un suono che genera connessioni, collegamenti, rimandi, citazioni. In poche parole è un suono che crea un mondo. Immagini. Superfici. Un suono che è materia quasi tattile, organica.
Ritorna “Dark Was The Night – Cold Was The Ground”. Non se ne era mai andata, in verità. Ritorna con un suono che è al di fuori della retorica, del falso impegno intellettuale, che è spontaneo, sincero e che emana una sua aurea psichica, emotiva, umana. Come far rinascere ed evolvere una tradizione.