I sogni elettrici e la lucida realtà di Eivind Aarset su #neuguitars #blog

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I sogni elettrici e la lucida realtà di Eivind Aarset

https://eivindaarset.com/

https://eivindaarset.bandcamp.com/

https://eivindaarsetjanbang.bandcamp.com/

“…space, abstraction and very little regulated rhythm…”1

Siamo nel 1997 e qualcosa di muove nel sottobosco del Jazz. Per chi non era ancora riuscito a recuperare lo shock dei dischi di John Zorn e dei Naked City, arriva un nuovo inquietante punto interrogativo. La ECM di Manfred Eicher fa uscire “Khmer”, opera del trombettista norvegese Nils Petter Molvær e il mondo fa improvvisamente conoscenza con una nuova ala del jazz proveniente dalla fredda Europa e con un nuovo stile, su cui i media specializzati si buttano con ardore, chiamato nu-jazz, un mix eccitante di jazz, elettronica, sample e una inedita visione sonora.

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In quel disco Molvær non era solo, ma si accompagnava ad un gruppo di sodali, alcuni dei quali nel corso degli anni svilupperanno un loro personale percorso stilistico. Tra di essi spiccava il chitarrista Norvegese Eivind Aarset, che, nel corso degli anni a venire, diventerà un nome molto apprezzato tra coloro che amano la sperimentazione vista anche la sua lunga e brillante carriera come sideman avendo collaborato non solo con Molvaer, ma anche con Jon Hassell, David Sylvian, Bill Laswell, Jan Garbarek, Paolo Fresu, Marilyn Mazur, J.Peter Schwalm, Mike Manieri, Marc Ducret, Michel Benitas Ethics, Martux-M, Stefano Battaglia, Michele Rabbia, Talvin Singh, e Andy Sheppard .

Aarset è un innovatore che spicca nel panorama internazionale per il talento e la capacità di saper creare un suono unico che lo distingue tra tutti gli altri chitarristi. Il suono della chitarra elettrica dipende da sempre non solo dallo strumento in se ma da una lunga catena di amplificatori, effetti analogici e digitali, connessioni informatiche e loop che offrono a qualunque chitarrista le più ampie possibilità per generare sonorità inedite e lontane dal più conosciuto suono rock.

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Quello che mi affascina di musicisti come Aarset è la loro capacità di ribaltare un’idea concettuale come la standardizzazione della produzione industriale. Pensateci. Chitarre elettriche, amplificatori e effetti non sono il risultato di un lavoro di liuteria, non sono pezzi unici dal suono unico. Sono strumenti realizzati da un ciclo di produzione che ha alla base la standardizzazione del prodotto per favorirne la produzione su larga scala. L’industria a servizio dell’intrattenimento. L’industria culturale. Da queste basi di partenza ti aspetteresti che tutti coloro che suonano una Fender Stratocaster abbiano tutti lo stesso suono, dato che suonano tutti lo stesso strumento, e invece non è così. Eivind Aarset ne è un esempio evidente: diversamente da altri suoi colleghi il chitarrista norvegese non sembra semplicemente suonare una chitarra e gli effetti ad essa collegati, ma si distingue per un uso radicalmente rivoluzionario dello strumento.

In questi suoi dischi, “Dream Logic” (ECM 2012), “I.E” (Jazzland 2015) e “Snow Catches on her Eyelashes” (Jazzland 2020), dove è affiancato dai sampler e dall’elettronica di Jan Bang, la sua musica si dipana attraverso lente costruzioni e tessiture attraversate da groove di basso che scompaiono in ronzii brillanti interrotte solo da occasionali colpi di rullante, marimbe che si evolvono nel suono di archi dissonanti e soffici tappeti metallici. In alcuni brani di “Dream Logic” e “I.E.” la sua chitarra sembra invasata da una free-improvisation dionisiaca, in altri riverbera un quartetto d’archi che suona una malinconica musica religiosa, o come scintillanti chitarre hawaiane danzanti sul lento sciabordio di acque lagunari, rivelando tutta l’ampiezza sonora delle fantasie soniche e degli approcci non ortodossi di Aarset.

In Jukai (Sea of Trees), evoca immagini di un oriente minimal Zen, emulando grazie a un ebow i suoni gagaku di un kokyu e di un hichiriki giapponesi sopra strati di percussioni e tenui lavaggi sonori.

Nel morbido Hommage to Green il tremolo della sua chitarra disegna panorami confortevoli e solo in mima parte jazzy, mentre nel brano più lungo, The Beauty of Decay, tesse paesaggi stratosferici miscelando suoni di ottoni alla John Hassell, echi di groove funky, liquidi accenni e impulsi di basso elettrico e melodie astruse in suono completamente diverso e mai udito prima da un chitarra.

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La logica sognante di Aarset raramente prende velocità: “Snow Catches on her Eyelashes” è un disco profondo, scuro che induce alla trance, con una tessitura talvolta così impalpabile da riuscire occasionalmente a sfiorare il silenzio, senza mai toccarlo.

Ho letto commenti che parlavano del carattere distopico della musica di Aarset. Non credo sia così, non credo che la musica di Aarset abbia caratteristiche distopiche, credo invece che sia una musica estremamente coerente e costruita con l’obiettivo di creare una narrazione strutturata, opaca e impalpabile. Le musiche di Aarset e di Bang sono tranquilli capolavori che dimostrano una misteriosa capacità di riuscire a disegnare nuovi plateaux sonori dove l’orecchio spazia verso orizzonti tridimensionali sempre visibili, ma mai raggiungibili.

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Ecco. Sì. Forse sono misteriosi nel senso di quel “eerie”, tanto caro a Mark Fisher. Ma è un senso del mistero avvolgente e non terrorizzante, l’ascolto delle sue musiche non solleva inquietudini ma riesce a stimolare nuove connessioni e approfondimenti. La musica di Eivind Arset è interessante perché esce dai canoni di hauntology e retromania che sembrano caratterizzare gran parte delle produzioni sperimentali di questi ultimi anni: Aarset riesce, invece, a disegnare un suo personale paradigma, senza bisogno di esprimere revisioni nostalgiche o angosce post-liberiste. Vi sembra poco?