Eddie Van Halen: guitar hero e superuomo di massa su #neuguitars #blog
..pre-determined codes – off-kilter riffs, amelodic, chromatic strato-guitar solos, shomanic, look-at-me-vocals and faultline-punishing ur-bas – Van Halen could not fail.
Julian Cope, Copendium, Faber and Faber, 2012
L’umano Eddie Van Halen se ne andato, ci ha lasciati. Commemorarlo è doveroso. Rimpiangerlo è superfluo. E’ superfluo ricordare che Eddie Van Halen è stato un eroe della chitarra: è stato l’eroe per eccellenza, il culmine di una scala evolutiva in cui si sono miracolosamente combinati talento, ossessione, desiderio, capacita sciamaniche e un sorriso così naturale e spontaneo da imporre Eddie nell’immaginario collettivo con la stessa potenza di uno dei personaggi dei romanzi d’appendice di Alexandre Dumas.
Partiamo dall’eroe. Eddie ha saputo imporsi con la potenza e le qualità di un virtuoso, in un momento storico musicale in cui mai si era visto così tanto disprezzo nei confronti dell’abilità musicale: nel 1977 la Virgin produce “Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols”, nel 1978 la Warner Bros fa uscire “Van Halen”. Mai due dischi rock furono così agli antipodi. Mai due emisferi creativi si scontrarono con tale violenza. Da un lato il grigio, cupo, disperato e e ringhioso nichilismo del punk inglese. Il No Future urlato con ghigno soddisfatto. Tre accordi buttati con disprezzo.
Dall’altro il sorriso aperto e ottimista di un ragazzo di Pasadena che attingeva al rock ‘n’ roll, lo rileggeva e lo sparava fuori con una potenza mai sentite prima. Il virtuosismo sbandierato con orgoglio quasi classico. Arena rock.
Impossibile immaginare un contrasto più diverso.
E poi lo stile. Eddie non è stato il primo guitar hero, e neanche l’ultimo. E’ stato, semplicemente, IL guitar hero. Lo è stato in termini di suono, di tecnica, di stile e di immagine. Lo è stato perché calzava quel ruolo come se fosse stata una seconda pelle, perché era nato per quello. Ma lo è stato perché quel ruolo era già stato interpretato da altri prima di lui, anche in altri generi musicali. Era stato un guitar hero Nicolo Paganini, violinista e chitarrista tra i più virtuosi, la cui tecnica si sussurrava fosse frutto di un patto demoniaco. Erano tre guitar heroes la sacra trinità britannica del rock: Jeff Beck, Jimmy Page e Eric Clapton. Ciascuno a modo loro, ciascuno in un modo quasi embrionale, ciascuno basandosi sulle loro specifiche qualità carismatiche e sciamaniche. Prototipi di una forma di comunicazione che la pop culture e l’energia del rock lanciarono in una accelerazione gravitazionale bruciante. Un’accelerazione che un altro guitar hero, l’Icaro Jimi Hendrix, non riuscì a gestire e a cui strappò le ali.
E poi Allan Holdsworth, il signore del legato, il genio degli accordi, l’iperbole di una forma di virtuosismo al confine tra la tecnica e la speculazione mentale che nessuno è ancora arrivato ad eguagliare e che guitar hero non volle mai essere veramente. Oggetto di un culto che ha rischiato, a sua volta, di schiacciarne la creatività e la personalità. Rispetto a tutti questi esempi Eddie è stato qualcosa di molto diverso. E’ stato semplicemente perfetto.
Prendiamo ad esempio Eric Clapton. Clapton è stato per molto tempo il perfetto guitar hero e lo è stato nel senso blues del termine. Il solitario dall’espressione seria in piedi all’angolo della strada, sotto la luce di un lampione. L’espressione accuratamente studiata, a metà strada tra quella di Clint Eastwood nei film di Sergio leone e quella dei protagonisti dei film di John Cassavetes. Quell’espressione sicura, ma non violenta, quell’essere macho senza il bisogno di sparare un solo colpo. E in più l’adorazione mediatica. Quel “Clapton is God” miracolosamente fotografato e inserito nella leggenda, sparso come verbo, come fatto tangibile, mediaticamente certificato. E ancora lo stregone Page, lo sciamano dell’archetto di violino, l’inventore di simboli alchemici che hanno segnato l’estetica rock in modo inalterabile.
When we speak of Edward’s singular guitar genius, we ain’t even talking beyond the fretboard itself. Hell, this geek’s day-care ideas for instant, packaging-tape guitar decoration will run the bills up over close to a fiver if Van halen ever get to album number sixty.
Julian Cope, Copendium, Faber and Faber, 2012
Eddie è andato oltre. Nessuno degli eroi qui citati è riuscito a segnare la cultura pop e rock in modo tale da meritare una attenzione accademica, definendo un nuovo territorio culturale. Faccio esplicito riferimento al saggio “Into the Arena: Edward Van Halen and the Cultural Contradictions of the Guitar Hero” di Steve Waksman pubblicato nel libro “Guitar Culture”, curato da Andy Bennett e Kevin Dawe. Perché nella fucina della musica rock e della cultura pop tutto ha una legge, nulla esce per caso: i desideri del pubblico e la struttura del mercato discografico interagiscono con le tradizioni dell’intreccio e della narrazione mitica dando vita a una forma mitologica che occorre individuare.
Le tecniche che Edward ha sfoggiato nel suo approccio alla chitarra elettrica dall’uscita del primo album dei Van Halen nel 1978 hanno esercitato un’influenza innegabile all’interno di diversi ambiti: economici, stilistici, mass media e tecnici. L’emergere di EVH come eroe della chitarra fu il culmine del processo attraverso il quale la chitarra elettrica acquisì le capacità e le potenzialità dei principali strumenti virtuosistici classici del XVII e XVIII secolo: la potenza e la velocità dell’organo, la flessibilità e le sfumature del violino. In particolare, il modello di eroismo della chitarra in cui è stato inserito EVH può essere compreso storicamente, non solo come parte di uno sviluppo lungo un secolo per quanto riguarda la preminenza dell’esibizione virtuosistica, ma più strettamente come una conseguenza delle possibilità all’interno della posizione culturale ed economica della musica rock che prese piede negli anni ’60 e ’70. Quelli furono gli anni in cui l’industria della musica rock riuscì a forgiare una nuova economia di scala, espandendo la sua portata economica in modo drammatico. Sebbene le vendite di dischi fossero una componente importante di questo sviluppo, forse il simbolo più carico del cambiamento culturale e della posizione economica del rock fu la crescita del formato delle esibizioni dal vivo. Spinti dal successo dei grandi festival musicali della fine degli anni ’60, i concerti rock vennero sempre più ospitati in grandi locali inizialmente concepiti non come sale da concerto ma come impianti sportivi; e con questo cambiamento nella modalità di presentazione dal vivo, nacque il fenomeno noto come “arena rock”.
L’Arena Rock è stato un fenomeno controverso. Per coloro che vedevano il rock come un territorio vergine per alimentare uno spirito di opposizione o di resistenza rispetto ai valori tradizionali, l’allargamento della base di pubblico generato dal “arena rock” sembrò troppo simile all’omogeneizzazione del gusto musicale su cui i critici dell’industria culturale, nel mezzo del XX secolo, avevano ripetutamente tuonato. Secondo questi critici, l’arena rock riuscì fin troppo bene nel compito di creare una massa di consumatori musicali che, guidati dall’illusione della ribellione generazionale, finirono per subordinare le loro singole individualità ai piaceri collettivi e indifferenziati di un imponente spettacolo hard rock.
E’ in questo contesto mutevole che prende piena forma e significato la figura del guitar hero. La dedizione artistica e la spinta per l’espressione personale individualistica incarnata nella figura dell’eroe della chitarra ha funzionato come una sorta di contrappeso all’idea che l’arena rock rappresentasse il punto finale del processo di mercificazione che aveva coinvolto il rock. I virtuosi della chitarra elettrica rappresentarono un nuovo grado di gerarchia nel mondo del rock, una celebrazione della maestria musicale espressa anche come una separazione tra le masse di fan fedeli e le loro icone preferite.
L’eccesso nel hard rock, la semplicità del punk: questa è una delle divisioni estetiche “classiche” nella storia recente della musica popolare. Quando il punk irruppe sulla scena rock a metà degli anni ’70, venne ampiamente inteso come un rifiuto delle convenzioni rock. Molti critici avevano percepito come il rock avesse perso il vantaggio critico che aveva portato avanti durante gli anni ’60, sacrificando l’intensità e l’impegno che lo avevano reso una forma chiave di espressione contro-culturale a favore dell’espansione della sua base di consumatori.
La chitarra elettrica e le relative tecnologie di amplificazione avevano promosso una stridente mercificazione dello spazio musicale all’interno del quale ogni possibilità di partecipazione significativa era stata sopraffatta dal suono imponente e dallo spettacolo del arena rock. Il punk può aver assimilato il fascino dell’hard rock per il “loud”, ma rifiutò l’idea che il “loud” dovesse essere racchiuso in una modalità di presentazione che corrispondesse alla portata del suono con la grandiosità spaziale, fisica ed economica. Altrettanto importante, il punk rifiutò, almeno in teoria, l’elevazione dell’esecutore su un terreno quasi sacro, una delle caratteristiche dell’hard rock commerciale, manifestatosi nella figura dell’eroe della chitarra.
Nella cornice dell’arena, l’eroe della chitarra, come divino virtuoso, ha svolto una funzione ideologica cruciale, offrendo l’apparenza della sua auto-realizzazione e della sua personale maestria di fronte alla folla crescente che occupava gli spazi della performance rock.
All’interno di questo clima di opinione, Van Halen venne ampiamente percepito come una sorta di ritorno al passato, una sorta di inevitabile progenie dell’epoca rock di ieri. Gran parte di questo senso di anacronismo derivava dall’abbraccio apparentemente entusiasta di EDV ai cliché già incarnati dai precedenti idoli come Eric Clapton e Jimmy Page.
Allo stesso tempo, Van Halen toccò una delle principali contraddizioni che attraversano la figura del guitar hero: pur presentandosi come un’icona rappresentativa dell’espressione creativa individuale, allo stesso tempo promuoveva anche una certa standardizzazione della tecnica strumentale, poiché i modelli di influenza sono attuati attraverso l’emulazione o l’imitazione totale.
La figura del guitar hero si pose quindi come un esempio per eccellenza del fenomeno più generale del capitalismo e del consumo di massa basato non soltanto sulla coltivazione di modelli di gusto omogeneo tra fan e consumatori, ma anche sulla convinzione che i prodotti della cultura permettano una libera espressione individuale, pur standardizzando il gusto e le pratiche artistiche.
Al centro della mistica di Van Halen, tuttavia, c’è la storia della sua esperienza nel modificare le chitarre e la sua prima reazione nei confronti dei modelli di chitarra standard che già disponibili sul mercato. Contro la crescente venerazione per gli strumenti vintage che era nel frattempo comparsa nel mercato delle chitarre, Edward pose la priorità sulla creazione dei suoi personali strumenti musicali, nel desiderio di ritagliarsi una forma e un suono che potesse considerare suoi.
Molti anni dopo la comparsa di Les Paul, Edward Van Halen riuscì a rappresentare una combinazione simile di virtuosismo tecnico e intraprendenza tecnologica. Attraverso la sua personale narrazione, i singoli esperimenti con il design della chitarra si intersecarono e rinforzarono l’ideologia del virtuosismo innovativo alla base dell’immagine dell’eroe della chitarra. Edward rifiutò l’idea di dover essere soddisfatto delle scelte standard disponibili per la massa dei consumatori . Da questo punto di vista, il lavoro di Van Halen alla ricerca del suono perfetto potrebbe essere inteso come una forma di resistenza alle convenzioni di consumo della chitarra elettrica, gettando le basi per una nuova estetica del design della chitarra elettrica che ha avuto un impatto considerevole sull’industria della chitarra negli anni a venire.

La lunga carriera di Edward Van Halen come guitar hero ha incarnato ed è stata plasmata dalle tensioni che risiedono all’interno del rock. È in questa intricata rete di conquiste individuali e adulazione di massa, di desideri personali e fascino standardizzato, che la carriera di Edward Van Halen assume il suo carattere contraddittorio e il suo significato, indispensabili per la comprensione dei recenti sviluppi nella storia del rock.
Riferimenti:
Umberto Eco, Il superuomo di massa, Bompiani, 2015
Julian Cope, Copendium, Faber and Faber, 2012
Andy Bennett and Kevin Dawe, Guitar Cultures, Berg, 2001