“No Love Is Sorrow” di Buck Curran e “FreeFolk” di Massimo Garritano, nuovo spazio per il folk su #neuguitars #blog
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Siamo alla fine degli anni 60′ e la musica folk assume un significato nuovo. Grazie a Bob Dylan la tradizione folk angloamericana, con i suoi toni biblici e le sue metafore apocalittiche, prende una nuova strada. Dylan sancisce un distacco dalla forma narrativa di quella tradizione, liberando le sue canzoni dai vincoli di una storia da raccontare, facendole entrare in una dimensione più propriamente poetica. Dylan rimase comunque un esempio complesso. Le ampie possibilità della sua musica, che avevano assorbito i timbri del R&B e del pop, e il suo tono spesso confuso, una volta associato ai regolari ritmi elettrici di un gruppo rock (Highway 61 Rivisited (1965), Blonde on Blonde (1966)) trasformò la spontaneità della canzone folk in uno stile più distaccato, garbato e metropolitano. Nel frattempo il brillante collage di metafore letterarie, allitterazioni e immagini, ben illustrato in Mr. Tambourine Man ebbe un notevole effetto sul pop e sul rock inglese e americano. Un nuovo clima culturale aveva così piantato le sue radici. Dylan e gli altri menestrelli non erano soli. A fianco della figura del cantautore, modesta e senza pretese, immersa nelle nebbie consolatorie dell’”arte”, si creò un nuovo spazio in cui la chitarra acustica (in particolare la dodici corde) cominciò a volare sulle ali di personaggi come John Fahey e Robbie Basho, che decisero di reinterpretare musiche e canzoni della tradizione blues (spesso andando alla ricerca dei suoi ultimi interpreti e collezionandone con fanatismo i vecchi 78 giri) collegandoli con la musica indiana e la musica colta europea. I temi comuni che stavano base di questo doppio revival postbellico erano la “verità”, la sincerità” e la “autenticità”: cioè l’appello universale lanciato contro la società industriale di massa del tempo. Entrambe queste due varianti di folk erano caratterizzate da una sorta di vaghezza di sentimenti e di nostalgia per il mondo rurale da cui provenivano, ma, allo stesso tempo, erano aperte a molte interpretazioni. Più politico, più legato alle università e ai circoli anticonformisti dei caffè del Greenwich Village, quello di Dylan. Più collegato a un’ideale di musica strumentale e di avanguardia quello di Basho e Fahey. Un’estetica diversa che ha portato a generare un campo molto diverso di influenze e di conseguenze, se il folk di Dylan ha conosciuto platee mondiali e ha avuto profonde influenze nella musica pop e rock, quello di Fahey e Basho è rimasto circoscritto a una sfera di appassionati più limitata, ricomparendo in superficie proprio quando il rock, con il post rock, ha sancito definitivamente la sua fine come movimento legato alla controcultura giovanile e prodotto della cultura di massa. Il fatto è che le chitarre di Basho e Fahey non hanno ancora terminato la loro ellissi culturale: dopo aver creato e definito il genere della primitive guitar, hanno continuato ad ispirare tanti musicisti, allargandone il campo d’azione.
“No Love Is Sorrow” di Buck Curran e “FreeFolk” di Massimo Garritano si innestano e continuano sulle ali di quella che ormai possiamo sia considerare una forma tradizionale ben consolidata sia un genere in grado di continuare a rinnovarsi e di generare nuove varianti.
Cominciamo con “No Love Is Sorrow”, Curran è statunitense ma da anni si è ormai trasferito a Bergamo, nella pianura padana, dove continua l’attività della sua etichetta indipendente Obsolete Recordings. Questo suo ultimo cd è nato da registrazioni effettuate in Italia tra il dicembre 2018 e il febbraio 2020, poco prima che il Covid-19 mettesse in stand by le nostre vite e le nostre società. Un disco quasi premonitore, che sembra anticipare il desiderio di speranza che questo virus ha caricato in tutti noi. “No Love Is Sorrow” ci insegna che l’arte, che la musica sono dei motori e dei catalizzatori potenti aiutarci ad esorcizzare, riflettere, confortare, rileggere il mondo attorno a noi, caricandolo di nuovi significati e di nuove bellezze, anche quando la realtà vorrebbe comunicarci un altro disperato messaggio.

La musica di Curran è una potente e intima immersione nel suono generato dalla voce e dallo strumento del chitarrista americano, un viaggio tra melodie e meditazioni strumentali che esprimono la profonda dimensione spirituale del suo autore e le sue connessioni con le strutture raga tratte dalla musica classica Hindustani.

Le strutture musicali di Curran non sono complesse, ma sono caratterizzate da un suono e da una dimensione dello spazio che non mancano mai di affascinarmi. Con pochi elementi, con apparente semplicità, Curran riesce sempre a ritagliarsi una sua dimensione sonora intima, intensa e allo stesso tempo ampia. Il suo è un suono che spazia, è arioso, luminoso anche quando il suo blues disegna geografie di sofferenza e di dolore.
Di carattere completamente opposto, ma complementare è “FreeFolk” di Massimo Garritano. Se Buck Curran è un musicista più istintivo, Garritano è un virtuoso dello strumento capace di creare un folk molto più complesso, caratterizzato da una forte immediatezza e energia strumentale.

L’album si snoda attraverso sedici composizioni strumentali, tredici nella versione in vinile, dove le chitarre di Garritano ci parlano di un crossover musicale che rappresenta una sintesi personale di quanto è stato coltivato nel corso di una carriera come professionista della musica. Tra le chicche dell’album segnalo l’uso interessante In Bottle Cup Blues, di una chitarra classica fretless, “preparata” con un tappo di plastica inserito tra corde e tastiera, cosa che modifica sensibilmente il suono e il timbro.

E’ come se i due si trovassero su due lati della stessa medaglia. Più intimistico Buck Curran, più virtuoso Massimo Garritano, ma la matrice di partenza è la stessa, come è lo stesso il desiderio di proseguire su un genere che ha fatto della capacità di assorbire idee e forme diverse uno dei suoi marchi di fabbrica. Complimenti a entrambi.