Tradizione e talento nella musica di Hedvig Mollestad su #neuguitars #blog

Tradizione e talento nella musica di Hedvig Mollestad su #neuguitars #blog

https://runegrammofon.com/collections/hedvig-mollestad/

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Non ero ancora riuscito a trovare un’idea interessante per poter commentare l’album solista “Ekhidna”, uscito nel 2020 per la Rune Grammofon, che Edvig Mollestad e il suo eccellente trio, con Ellen Brekken (bass) e Ivar Loe Bjørnstad (drums), tornano a incalzare la mia attenzione con uno dei dischi più belli del 2021: “Ding Dong.You’re Dead”.

Due dischi che vi invito caldamente ad acquistare e ad ascoltare perché esprimono entrambi una qualità musicale di altissimo livello, accompagnata a delle idee che non mancheranno di farvi riflettere a proposito di ciò che vuol dire cercare di fare musica rock in un momento e in un mondo che sembra aver dimenticato concetti come virtuosismo musicale, passione, desiderio di autenticità e di innovazione a favore di un pigro edonismo che vede la musica occupare uno scarso posto residuo, come fondale di intrattenimento a seguito di streaming vari.

L’ascolto di questi due album (e il riascolto di “Enfant Terrible” (2014) e di “Shoot!” (2011)) mi ha portato a interrogarmi su cosa e come si intende il concetto di “tradizione” all’interno della musica rock. Nell’ambito della critica musicale rock, diversamente da quanto si fa per la musica classica, si parla raramente di “tradizione”, anche se di tanto in tanto ci si serve del termine per deplorarne l’assenza.

I temi più trattati sono sempre stati, infatti, la “verità”, la “sincerità e la “autenticità”, nozioni chiave che si opponevano ai “vuoti” sentimenti della più bieca musica di consumo e della sua ideologia. Di rado il termine “tradizione” appare in una frase che non sia di censura. Il termine, allora, suona vagamente elogiativo, e suggerisce, nell’opera lodata, la gradita presenza di una certa ricostruzione di gusto…archeologico. In realtà, ogni genere musicale ha un proprio atteggiamento mentale non solo nella creazione ma anche nella critica; ed è portato a dimenticare le manchevolezze e i limiti delle sue abitudini critiche ancor più di quelle del genio creativo che cerca di analizzare.

Mi sono reso conto che, spesso e volentieri, nel mio blog neuguitars.com ho la tendenza a sottolineare le caratteristiche di un musicista e/o di un compositore in cui egli somiglia meno ad altri suoi colleghi. Cerco sempre di rintracciare ciò che è più personale, la sostanza peculiare di quell’artista, le cose che lo differenziano dai predecessori. Cerco qualcosa di isolabile. Mi è successo anche con l’ascolto degli album dei The Messthetics, dove mi sono accorto che le parti non solo migliori ma anche più personali della loro musica sono forse quelle dove i loro predecessori dimostrano con maggior vigore la loro immortale vitalità.

Non vorrei fare confusione: concordo pienamente con T.S. Elliot quando afferma che “se la sola forma di tradizione, di trasmissione poetica, consistesse nel seguire le stesse strade della generazione immediatamente precedente, con una cieca o timida adesione ai risultati ottenuti, la “tradizione” andrebbe senz’altro scoraggiata.” Una delle cose negative dell’eccesso del citazionismo espresso da parte del post modernismo è, infatti, la confusione generata dalla dispersione; troppi di rivoli che si perdono nella sabbia, e per me è sempre vero che la novità è preferibile alla ripetizione.

E’ con questo spirito che mi sono accostato all’ascolto di questi due album.

Dalle prove precedenti avevo ricavato l’idea che Hedvig Mollestad e i suoi compagni non fossero solo degli eccellenti musicisti, dotati di un interplay perfetto, ma che fossero perfettamente integrati in una “tradizione” rock che, con ammirevole tenacia, album dopo album, cercavano caparbiamente di innovare e innestare con nuove/vecchie idee senza perdere di vista la loro unicità artistica. Lo so. Qualcuno potrebbe criticare la loro abilità strumentale, il loro virtuosismo affermando che troppo virtuosismo smorza o corrompe la sensibilità musicale. Credo tuttavia che una chitarrista come la Mollestad sappia suonare bene tanto quanto basta a non impedire la libera espressione della sua indispensabile ricettività e sensibilità, che il suo virtuosismo non si limiti a ciò che può essere tradotto in formule utili per gli esami da Conservatorio o a un vuoto esibizionismo.

Sento che in “Ekhidna” e “Ding Dong.You’re Dead” il concetto di “tradizione” ha una portata molto più vasta. Cito sempre Eliot: “La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica.” Questa frase significa diverse cose: essa esige che si abbia, anzitutto, un buon senso storico, avere cioè la consapevolezza non solo che il passato è passato, ma che è anche presente. Credo fermamente che Hedvig Mollestad sappia suonare non solo con la sensazione fisica di appartenere alla propria generazione e al proprio tempo, ma anche con la coscienza che tutta la musica ha una sua esistenza simultanea e si struttura in un ordine simultaneo. E a questo bagaglio culturale si può attingere per creare e innovare. La Mollestad riesce a combinare la capacità di creare riff potenti, di facile assimilazione, con strutture armoniche complesse e allo stesso tempo non eccessivamente cerebrali. Il suo prog rock, si innesta facilmente con la complessità del nu-jazz, con l’energia del metal; uno stile polimorfico perfettamente funzionale accompagnato a una produzione perfetta che fa in modo che nessuno dei suoi dischi scada nella prolissità di un ascolto ripetuto, volto a incensare un eccesso di ego e di virtuosismo fini a se stessi.

Il possesso del senso storico, che è il senso dell’a-temporale come del temporale: ecco quello che rende tradizionale e innovativa una musicista come Hedvig Mollestad. Ed è ciò che la rende più acutamente consapevole del suo posto nel tempo, della sua contemporaneità. Nessun musicista, nessun compositore, nessun artista, preso per sé solo, ha un significato compiuto. Non è possibile valutarlo da solo; bisogna collocarlo, per procedere a confronti e contrapposizioni, tra coloro che l’hanno preceduto. Hedvig Mollestad, Ellen Brekken e Ivar Loe Bjørnstad si collocano all’interno di flusso musicale che, anche se ancorato all’interno della popular music, ha saputo evolversi in forme altamente innovative e personali. Il loro stile è unico, sono facilmente riconoscibili e non sono mai banali o ripetitivi. Si ritorna con piacere ad ascoltare i loro dischi, magari in cerca delle immancabili citazioni, degli appigli storici, ma soprattutto per immergersi in una musica viva, energetica ed efficace. Alcuni sono capaci di assorbire la musica, altri, meno agili, devono conquistarsela sudando. Loro sono semplicemente fantastici. Guardateli dal vivo. Norway dreaming…

Bibliografia:

T.S.Eliot Il Bosco Sacro Bompiani 1985 Milano