Un flusso ininterrotto di feroce e estatico noise: la fine del mondo inizia col blues di “I Don’t Hear Nothin’ but the Bues Volume 3: Anatomical Snuff box”, Irabagon/Pride/Barr/Menoza

Un flusso ininterrotto di feroce e estatico noise: la fine del mondo inizia col blues di “I Don’t Hear Nothin’ but the Bues Volume 3: Anatomical Snuff box”, Irabagon/Pride/Barr/Menoza

Questo non è un album di semplice musica, questo è un assalto sonoro ininterrotto di 46 minuti e 54 secondi. Provate ad ascoltarlo e ne uscirete cambiati, se non vi sarete arresi nei primi 5 minuti, “cataclysmic end-of-the-world guitars, saxophone and drums” lo definisce Jon Irabagon nel suo Bandcamp e ha perfettamente ragione. Qui siamo veramente ai limiti, oltre c’è solo il rumore bianco. Non fa differenza se abbiamo due chitarristi Non cambia nulla se la batteria qui viene semplicemente sovrastata dagli altri strumenti. Questo disco è puro caos intenzionale ad alto voltaggio. Tuttavia non sarei così frettoloso nei giudizi. Se riuscirete a superare quei primi fatidici cinque minuti, questo Volume 3 vi potrà regalare dei momenti di pura comprensione musicale e anche di gioia.

Non sarà facile, questo cd respinge facilmente e affascina lentamente. Respinge perché la sua musica è carezzevole come carta vetrata a grana grossa, affascina perché dietro alla cortina sonora estrema lascia intravedere qualcosa di indefinito e opaco e perché pone delle domande.

Deus ex machina, dietro a questo progetto intitolato “Don’t Hear Nothin ‘But the Blues”, è il sassofonista tenore Jon Irabagon, questo terzo capitolo della serie lo vede affiancato dal batterista Mike Pride, dal chitarrista metal sperimentale Mick Barr e dall’arrivo dell’aggressiva Ava Mendoza, che in coppia con Barr, porta il suono direttamente dentro alla potenza dei loro amplificatori lanciati a tutto galoppo. I due si prendono rapidamente la scena.

Scordatevi qualunque riferimento a qualunque forma di sensibilità jazz, Barr e Mendoza sono potenza pura speculare, uno di fronte all’altra, decisi a non lasciarsi sopraffare, fieri di liberare ciascuno la propria personalità, in un call and response che assomiglia a un lungo flusso ininterrotto di pensieri sparati a intensità fotonica.

Irabagon e Mike Pride sono impegnati in due ruoli meno appariscenti ma non meno importanti, Il primo dirige il traffico, notando e rafforzando gli inevitabili microscopici cali di tensione, inserendo nuove coordinate, portando il quartetto ad esplorare nuove possibilità. Il batterista invece fa un passo indietro, asseconda, punzecchia, stimola, fornisce un salvagente ritmico, un punto di riferimento a cui ancorarsi per evitare di essere trascinati via da questa marea sonora crescente. E’ a lui che tornano quando la bussola non funziona, quando le coordinate si perdono lungo una linea di confine che viene incessantemente spinta sempre più avanti.

L’ascoltatore ha due possibilità; scappare via o lasciarsi immergere in questa energia a calore bianco. Se sceglierà la seconda possibilità potrà gradualmente leggere delle tenui tracce di struttura, una architettura impalpabile che vive di una comunicazione non scritta e non verbale tra i membri del quartetto. Impliciti scambi di sguardi, sottili cambi di espressione e la musica può virare, può entrare in un loop o partire per una nuova direzione. Quasi quarantasette minuti di tensione, che continua gradualmente ad accumularsi fino al finale annientante, in cui tutti spendono fino all’ultima goccia di sudore. Non è un disco, è una vera e propria catarsi.

Favolosa la copertina e i disegni all’interno del disco realizzati da Agassi Karl Saballa. Quattro tipi decisamente poco raccomandabili, prima di giocare a poker con loro ci penserei due volte. Mix di Jamie Saft e master di Christian Castagno.