Quando il “contemporaneo” diventa “classico” nelle chitarre di Flavio Nati e Andrea Dieci: “Toru Takemitsu complete works & transcription for solo guitar” e “English guitar music of the 20th Century” su #neuguitars #blog
Qualche tempo fa mi sono soffermato a parlare del concetto di “classico” a proposito del bel doppio cd di Henry Kaiser dedicato alle musiche di John Coltrane. In quel post citavo apertamente J.L.Borges scrivendo come “classico è quel libro che una nazione o un gruppo di nazioni o di lungo tempo hanno deciso di leggere come se nelle sue pagine fosse tutto deliberato, fatale, profondo come il cosmo e capaci di interpretazioni senza fine.” Ripensandoci sopra il “classico” non è semplicemente un concetto, ma una categoria dai confini molto ampi e sfumati, in quanto ha nel suo DNA la capacità di essere assimilato nella cultura condivisa. Ad esempio, se parliamo di musica classica parliamo certo di musica colta, ma anche di una musica che ha avuto un peso sufficiente a scavare profondamente l’immaginario collettivo di ogni classe sociale. Quando dei brani di musica contemporanea diventano dei classici? Quando un compositore diventa un classico? Quando diventano degli esempi storici, delle radici culturali? Non si tratta solo di un cambio di passo etimologico, ma anche semantico. E’ un cambio di prospettiva.
Queste riflessioni sono sorte spontanee ascoltando i due cd oggetto di questo post: “Toru Takemitsu complete works & transcription for solo guitar” del bravo Flavio Nati, prodotto dalla casa indipendente Stradivarius nel 2020 e il nuovissimo “English guitar music of the 20th Century”, eseguito da Andrea Dieci, per la Brilliant Classics nel 2021.
Entrambi i dischi attingono a un repertorio ormai ben consolidato, non solo in termini di edizioni discografiche, ma anche per quanto riguarda la didattica musicale; fino a non molti anni fa, tuttavia, non era così. Il repertorio di natura contemporanea veniva guardato con sospetto nei Conservatori ed era oggetto di studio e di esecuzione di pochi interpreti specialisti. Faccio una premessa: entrambi i dischi sono due ottimi lavori, che vi consiglio caldamente di procurarvi se avete un minimo interesse verso la chitarra classica. In entrambi le esecuzioni sono di ottimo livello, come sono di alta qualità anche il livello delle registrazioni e della resa sonora dei cd.
Comincerei dal cd di Andrea Dieci, nella mia discoteca finora di simile trovava posto solo la bella raccolta “British Guitar Music” di Graham Anthony Devine, prodotta nel 2005 per la Naxos. Il cd di Dieci mi sembra un passo in avanti sia in termini di qualità sonora che di repertorio: rispetto alla edizione di Devine contiene, infatti, non solo i “Quatre Pieces pour la guitare”, la “Sonatina for Guitar op 52/1” e “Theme and Variations for Guitars op 77” di Lennox Berkeley, le “Five Bagatelles” di William Walton, ma anche la “Sonatina for Guitar” di Cyrill Scott e soprattutto il “Nocturnal after John Dowland for Guitar op 70” di Benjamin Britten, che era rimasto escluso, per me inspiegabilmente, dalla raccolta della Naxos. Dieci è ormai un professionista navigato e sicuro, un interprete dalle qualità indiscusse, che non mancherà di emozionarvi anche con questo repertorio, come sono sicuro che troverete interessante i commenti di Leonardo De Marchi, autore dei testi del libretto del cd.
Scoprirete un Takemitsu molto emotivo nelle corde della chitarra di Flavio Nati. Il repertorio è quello ormai ben conosciuto e consolidato: “A piece for guitar” composto come regalo di compleanno per Sylvano Bussotti, “All in Twilight”, “Folios”, “Equinox”, “In the Woods”, le “Twelve Songs for Guitar” e “The Last Waltz”. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un repertorio ben conosciuto e consolidato, anche in questo caso la mano dell’interprete diventa fondamentale nel poter aggiungere qualcosa a una narrazione già esistente. Nati non può contare sull’esperienza di Andrea Dieci, ma riesce comunque a fare in modo che questo cd sia il ‘suo’ Takemitsu, creando un lavoro che lo affranca dalla dipendenza di chi aveva già suonato prima questi brani. Qui, infatti, ci troviamo di fronte a un esempio di come da una determinata concezione si possa passare a un’altra, il linguaggio precedente rimane, ma, sia per l’interprete che per l’ascoltatore, assume il ruolo di una metafora. Per citare Gramsci: “il linguaggio è una cosa vivente e nello stesso tempo è un museo di fossili della vita passata”. Credo che questo valga anche in ambito musicale, e se il linguaggio è metafora allora la storia della sua semantica, della semantica musicale è anche un aspetto della storia della cultura. Per questo amo le manografie, perchè all’ascoltatore è data la possibilità di avere un quadro più ampio non solo sulla musica di un compositore, ma anche sui modi in cui un interprete legge la sua musica. Ogni volta è come se sbirciassimo da sopra la spalla sinistra di chi ci sta sia aiutando a capire e a penetrare un mondo creativo, sia a leggerlo con occhi e orecchie nuove.
Se Borges ci racconta come “classico è quel libro che una nazione o un gruppo di nazioni o di lungo tempo hanno deciso di leggere come se nelle sue pagine fosse tutto deliberato, fatale, profondo come il cosmo e capaci di interpretazioni senza fine.” Allora io insisto. Classico è un libro, uno spartito,un disco che le generazioni degli uomini, spinte da diverse ragioni, continuano a leggere, a suonare, ad ascoltare con nuovo fervore e una misteriosa lealtà. Perché questo avvenga, però, abbiamo bisogno di interpreti che sappiano filtrare, tradurre, innovare, rinnovare. Il compositore ha esaurito il suo compito. Altri leggeranno le sue opere, aggiungeranno o toglieranno qualcosa, daranno un pizzico di velocità al ritmo, lo rallenteranno a seconda del loro umore, del loro temperamento, della loro sensibilità. E a noi non resterà che ascoltare, capire e gioire.