
Esiste un’icona per la musica contemporanea per chitarra elettrica? Penso proprio di sì. Quell’icona si chiama Electric Counterpoint.
Secondo l’Enciclopedia Treccani il termine “esotismo” indica “ogni elemento forestiero che appare nella letteratura o nell’arte. In linguistica, ogni elemento lessicale introdotto in una data lingua da una lingua straniera, soprattutto quando conservi la sua forma originaria, o si tratti di un uso estraneo alla struttura fonetica, morfologica o sintattica della lingua d’arrivo; è in genere sinon. di forestierismo (che in passato era detto anche barbarismo). 2. a. Con sign. astratto, in genere, il gusto, la ricerca e l’uso delle cose forestiere, estranee alle tradizioni locali, nelle arti e nella vita; adesione a forme artistiche esotiche, e in partic. orientali. In senso specifico, l’aspirazione, che ebbe la massima diffusione col romanticismo e col decadentismo, verso i paesi dell’Oriente e del Sud, vagheggiati come paesi più ricchi di sensazioni, e, in minor misura, verso quelli di civiltà ancora primitiva.” Francesco Adinolfi, nel suo eccellente libro “Mondo Exotica” (Einaudi), saggio musicale, storico, sociale che analizza il fenomeno della riscoperta della cosiddetta musica lounge/cocktail e dei suoi vari sottogeneri (exotica, space age pop, spy music, crooner music, crime jazz, colonne sonore di film di genere ecc.), indica come il termine plurale «exotica» serva a contenere e includere elementi diversi che si rivelino al comune sentire. Dal più nobile al più improbo. Se andiamo al cuore del prefisso «eso», esterno, ci si rende o che esotismo dovrebbe implicare allora «tutto ciò che è , (ovvero) aprirsi all’estraneità dell’Altro e sentire se stessi, gli altri, rivestiti di un’estraneità inquietante». Tutto molto semplice, vero? Nella realtà questi due assunti presuppongono una faticosa uscita dai propri condizionamenti e un’apertura alla diversità svuotati da ogni fantasia colonialista/imperialista-e geografica. Un tema, questo, affrontato in maniera radicale da Edward Wadie Said nel suo monumentale saggio “Orientalismo”, dove egli sostenette come la maggior parte degli studi occidentali svolti sulle popolazioni e sulla cultura orientale (in particolare relative al Medio Oriente) svolsero la funzione di autoaffermazione dell’identità europea e giustificarono il controllo e l’influenza esercitata nei territori colonizzati. In questo articolo analizzo il contributo apportato da Steve Reich con il suo brano “Electric Counterpoint” a due concetti come appunto l’esotismo e il cosmopolitismo, facendo riferimento anche all’eredità culturale lasciataci da Antonio Gramsci. Gramsci evidenziò come fosse in atto all’epoca una narrazione secondo cui una certa forma culturale aveva il diritto di dominare un’altra; Gramsci chiamò questa forma dominante “egemonia culturale”, mostrando come il capitalismo utilizzasse il potere occulto del discorso egemonico per raggiungere un’identità culturale obbligatoria. Said ha assorbito questa teoria come riferimento, e l’ha inserita nel rapporto di potere tra cultura occidentale e cultura orientale, definendo l’orientalismo come una nuova politica coloniale stabilita dall’imperialismo. L’orientalismo, e con esso l’esotismo, è una manifestazione di egemonia culturale, che conferisce all’orientalismo il potere di sostenersi. Probabilmente vi starete chiedendo cosa a che vedere un compositore americano come Steve Reich con simili tematiche. Non poco, essendo la sua formazione culturale e il suo background musicale legati alla musica africana, balinese e asiatica.
Credo, tuttavia, sia il caso di andare per gradi. Tutto comincia dal libretto che accompagna la prima edizione della Nonesuch Records di “Electric Counterpoint”, dove troviamo scritto:
“Electric Counterpoint was commissioned by the Brooklyn Academy of Music’s Next Wave Festival for the guitarist Pat Metheny. It was composed during the summer of 1987. The duration is about 15 minutes. It is the third in a series of pieces (preceded by Vermont Counterpoint and New York Counterpoint) all dealing with a soloist playing against a prerecorded tape of themselves. In Electric Counterpoint, the soloist prerecords as many as 10 guitars and two electric bass parts and then plays the final eleventh guitar part live against the tape. I would like to thank Pat Metheny for showing me how to improve the piece in terms of making it more idiomatic for the guitar. The work is in three movements—fast, slow, fast—played one after the other without pause. The first movement, after an introductory pulsing section where the harmonies of the movement are stated, uses a theme derived from Central African horn music that I became aware of through the ethnomusicologist Simha Arom. That theme is built up in eight voice canon and, while the remaining two guitars and bass play pulsing harmonies, the soloist plays melodic patterns that result from the contrapuntal interlocking of those eight prerecorded guitars. The second movement cuts the tempo in half, changes key and introduces a new theme, which is then slowly built up in nine guitars in canon. Once again, two other guitars and bass supply harmony, while the soloist brings out melodic patterns that result from the overall contrapuntal web. The third movement returns to the original tempo and key and introduces a new pattern in triple meter. After building up a four-guitar canon, two bass guitars enter suddenly to further stress the triple meter. The soloist then introduces a new series of strummed chords that are built up in three-guitar canon. When these are complete, the soloist returns to melodic patterns that result from the overall counterpoint, suddenly, the basses begin to change both key and meter back and forth between E minor and C minor and between 3 2 and 12 8 , so that one hears first three groups of four eighth-notes and then four groups of three eighth notes (see ex. 36-1). These rhythmic and tonal changes speed up more and more rapidly until at the end the basses slowly fade out and the ambiguities are finally resolved in 12 8 and E minor.”
Citando Borges, potrei definire Electric Counterpoint come un’opera di immaginazione ragionata, il frutto di un processo complesso, articolato e concettuale. Nel suo ottimo libro “”La chitarra elettrica nella musica da concerto”, il chitarrista italiano Sergio Sorrentino scrive: “Capolavoro assoluto del repertorio colto per chitarra elettrica, l’Electric Counterpoint ha costituito un netto spartiacque nella storia di questo strumento. La forza, la riuscita e il successo di questo brano hanno invitato tantissimi compositori a rompere gli indugi e ad avvicinarsi al mondo della chitarra elettrica..(…)..In questo brano Reich inserisce diversi elementi del suo pensiero musicale. Vi troviamo l’elemento imitativo contrappuntistico, i ritmi africani, brevi frasi ripetitive, un forte impianto tonale.” Fondamentalmente Electric Counterpoint è una danza, una danza che si può ballare come le musiche dei Kraftwerk, come si può ballare di architettura. Una danza che parte da lontano, dall’Africa centrale, il cui tema viene preso in prestito dalle registrazioni contenute sul disco BANDA POLYPHONY, prodotto dall’Unesco nel 1975 e incentrato sulle musiche tradizionali eseguite da gruppi di musicisti di vari strumenti a fiato e percussioni della Repubblica Centrafricana. Reich non è nuovo a queste sperimentazioni. Nell’intervista con Enzo Restagno, pubblicata nel libro “Autori Vari Reich” egli afferma: “Cominciai a suonare il tamburo quando avevo 14 anni ed è un interesse che ho coltivato per tutta la vita. Nella musica colta dell’Occidente il tamburo è solo uno degli strumenti dell’orchestra e fa parte delle percussioni; il termine “drumming” significa suonare il tamburo, ma appartiene alla sfera del jazz e della musica leggera. Fu ascoltando la musica africana che mi resi conto che lì la concezione della musica per strumenti a percussione era molto più ampia e comprendeva entrambe le categorie che dicevo prima. Drumming è prima di tutto uno sforzo per attribuire al tamburo, e quindi alle origini della mia educazione musica-il significato più ampio possibile. L’uso che delle voci ho fatto in questo pezzo ha una precisa origine jazzistica, perché il canto jazzistico – penso in particolare a Ella Fitzgerald – parte dal presupposto di usare la voce come uno strumento. Oltre a queste suggestioni jazzistiche, che sintetizzano alcuni elementi della mia educazione musicale giovanile, c’è Drumming un altro elemento di grande importanza, che deriva dall’esperienza che avevo compiuto nel Ghana, dove mi ero recato appunto studiare le percussioni. Di ritorno da quel viaggio si pose il problema di come utilizzare le conoscenze che vi avevo acquisito, ma fu subito chiaro per me che non avrei usato strumenti di tipo africano, bensì quelli mi erano abituali, come marimba e glockenspiel. Gli strumenti che mi ero portato dall’Africa, alcuni sonagli e vari tipi di campane, possedevano un tipo di intonazione diversa da quella occidentale. Se li avessi impiegati avrei finito con lo snaturare il loro carattere e non ne avrei tratto nessun particolare profitto. Quello che mi interessava non era infatti il colore esotico, ma la struttura; per questo decisi di suonare con i nostri strumenti il tipo di musica che avevo imparato in Africa e mi misi al lavoro con Arthur Murphy, Steve Chambers e Jon Gibson, che erano i miei collaboratori più fedeli. In questo caso si trattava di musica africana, ma si potrebbe dire in senso lato che le suggestioni esotiche provenienti dall’Oriente non abbiano avuto sulla nostra musica un effetto positivo, perché nessuno è riuscito a sintetizzare i due sistemi. La mia soluzione personale è consistita nel fare riferimento alla struttura invece alla sonorità; in una certa misura questo modo di procedere potrebbe essere assimilato a quello di Bartók, che nelle sue ricerche sul canto popolare era particolarmente attratto dalle strutture. Personalmente non vedo altro modo di rapportarsi alle musiche, non dico dell’Africa o dell’Oriente, ma anche a quelle della tradizione occidentale colta, poiché dovrebbe essere chiaro che non si può imitare il contenuto della musica dei compositori del passato, mentre la conoscenza delle strutture formali che in quelle musiche agiscono può essere decisamente utile.”
L’interesse di Reich verso la musica africana risale a quando era studente alla Cornell University, verso la metà degli anni Cinquanta. In seguito nel 1962, assistette a una conferenza per studenti di composizione a Ojai, in California, in cui il compositore americano Gunther Schuller parlò del suo interesse per la musica africana in relazione al suo libro sul jazz delle origini in America. Schuller sosteneva di aver trovato un libro con trascrizioni accurate di musica del Ghana: “Studies in African Music” di A.M. Jones. Di ritorno a San Francisco, dove all’epoca viveva, Reich prese in prestito in biblioteca questo libro in due volumi; rimanendo sorpreso di trovarvi qualcosa che si potrebbe descrivere come dei motivi ripetuti sovrapposti in modo che i tempi principali non coincidono, rendendosi conto che era un modo radicalmente diverso dì fare musica e che presentava delle affinità con gli esperimenti che stava cominciando a fare all’epoca con nastri in loop multipli e simultanei Dopo aver composto It’s gonna rain, Come Out, Piano Phase, Phase, Four Organs, Phase Patterns e altre opere, Reich partì per Ghana nell’estate del 1970, dove ebbe modo di incontrare Robert Fraser, autore del libro “Literature, Music and Cosmopolitanism”, su cui torneremo successivamente. Al ritorno a New York da Accra, Reich non solo portò con sé numerose trascrizioni di musica africana (pubblicate nel suo libro di saggi “Writings on Music”, ma anche varie campane di ferro chiamate gong-gong e atoke, pensando di usarle nelle sue composizioni. Si accorse, però, che le campane provenivano da un contesto musicale e da una tradizione specifici, e che presentavano problemi di intonazione nei confronti della musica occidentale, la cui soluzione avrebbe comportato un intervento radicale (prendere una lima e modificarne l’intonazione). Preferì lasciar perdere. In seguito, nel 1974 e 1975, Reich studiò musica balinese durante le sessioni estive della American Society for Eastern Arts, a Seattle e a Berkeley. Ancora una volta rimase colpito dalla struttura ritmica della musica che risultava dalle trascrizioni di McPhee. Ci fu una svolta creativa: Reich decise di non voler affatto imitare le scale o i timbri di queste musiche, ma che ciò che gli interessava era piuttosto la struttura della musica. Non voleva imitare il suono della musica balinese o africana, voleva piuttosto pensare in termini balinesi o africani, sviluppando le sue idee sulla costruzione ritmica e conservando nel contempo un suono personale. Attorno a lui il mondo si muoveva in modo diverso: altri compositori e musicisti intorno a lui cominciavano a imitare le scale e i timbri vocali e strumentali di varie musiche non occidentali, in particolare di quella indiana, introducendo strumenti non occidentali come il sitar nei gruppi rock, creando melodie vocali o strumentali in “stile indiano” su bordoni elettronici e così via. Una conferma delle forme di “egemonia culturale” indicate da Gramsci e da Said, una riproposizione in forma colta della musica esotica. Una sorta di “cineseria” aggiornata. In contrasto con questo tipo di imitazione del suono, Reich decise d’imparare dalla struttura della musica africana e balinese, utilizzando lo stesso processo di apprendimento adottato dagli studenti di musica occidentale quando imparano, ad esempio, il canone. Il viaggio in Ghana si confermò essere più un incoraggiamento, che una svolta, nel suo stile compositivo. Se le sue opere formative (It’s gonna rain, Come Out, Piano Phase, Violin Phase ecc.) risalgono agli anni ’60, e precedono dunque il soggiorno nel Ghana del 1970, quel viaggio sostanzialmente confermò la direzione che stava già seguendo: l’interesse per gli strumenti acustici rispetto a quelli elettronici, per le percussioni e il phasing, la cui intuizione era venuta osservando due nastri in loop svolgersi su due registratori, ma le cui potenzialità di sviluppo erano arrivate con la lettura del libro di trascrizioni africane di A.M. Jones.
Portate ancora un po’ di pazienza, stiamo per arrivare a Electric Counterpoint. Qualche tempo dopo, nel 1975, Reich venne a conoscenza delle ricerche dell’etnomusicologo Simha Arom. Mentre era a Parigi nel 1976 per una serie di concerti con il suo ensemble, ebbe l’occasione d’incontrarlo brevemente e di informarsi sul suo lavoro di registrazioni e di trascrizioni effettuato nell’Africa centrale. Nel 1987, proprio mentre cominciava a comporre Electric Counterpoint per chitarra elettrica e nastro, Reich ricevette una copia della sua opera Polyphonies at Polyrythmies Instrumentales D’Afrique Centrale (1985). Leggendo il libro Reich rimase colpito da uno dei motivi per tre corni. Unificando le tre parti di corno ed estendendo il motivo su due battute con una lieve modifica, Reich creò il tema per il primo movimento di Electric Counterpoint. Questo tema viene quindi sviluppato in canone stretto da un totale di otto chitarre, alle quali si aggiungono l’interprete dal vivo e tre chitarre basso. Fu la prima volta in cui Reich riuscì ad usare un tema africano in uno dei suoi pezzi. L’averlo trovato in un libro dove era già trascritto in notazione occidentale rendeva irrilevante il problema dell’intonazione riscontrato in precedenza. Reich aveva fatto bingo. Le qualità “africane” di Electric Counterpoint riguardano non tanto il suono, quanto piuttosto l’ambiguità metrica nella disposizione degli accenti principali, che a sua volta dipende dalla densità con cui si svolge il canone tra le varie parti. Questa ambiguità si riscontra soprattutto nell’ultimo movimento, in cui il tema africano non compare neppure e dove la scansione metrica è in 4/4, invece della caratteristica ambiguità del Ghana in 3/2=12/8. Essendo Electric Counterpoint una musica basata sulla ripetizione motivica, è necessario introdurre una certa ambiguità ritmica, al fine di variare la percezione acustica del motivo. In questo Reich si rivela essere un maestro, nel suo libro “Writings on Music 1965–2000” scrive: “We all hear our Western scale before we learn to walk or talk. It is deeply programmed in our conscious and unconscious mind. To try, later in life, to imitate a scale from Bali or India is, it seems to me, rather problematic. To really do it best one needs to use the original non-Western instruments, which are best played by the original non-Western players, and so what exactly is one doing here? On the other hand, Western musical structures like canon, fugue, and others are learned considerably later in life and are really only learned well by professionals or well-trained amateurs. These ways of putting music together can thus be transported to another culture more easily because they are not as deeply ingrained in our minds. One can thus create music with one’s own sound that is constructed in the light of one’s knowledge of non Western structures.”
Per Reich si può studiare la struttura ritmica della musica non occidentale e lasciare che questo studio influisca sulla propria musica, continuando nello stesso tempo a usare gli strumenti, le scale e i suoni con i quali si è cresciuti: ne risulta una situazione interessante, in cui l’influenza non occidentale si manifesta nella concezione dell’opera, ma non nel suono. È una forma più affasci-nante e genuina di sintesi, in cui nell’ascolto non si è necessariamente consapevoli che vi sono dei riferimenti alla musica non occidentale. Un atteggiamento ben lontano dalle forme di appropriazione culturale descritte da Edward D. Said. Un atteggiamento culturale che guarda più a forme cosmopolite, che non di retaggio esotico. Nel suo libro “Literature, Music and Cosmopolitanism”, l’autore Robert Fraser, indica come Reich, prima di concentrarsi sulla musica, sia stato uno studente di filosofia alla Columbia, dove aveva scritto una dissertazione su Wittgenstein. Proprio come Wittgenstein era stato interessato alle procedure coinvolte nei giochi linguistici, così Reich era rimasto affascinato dal funzionamento di quelli che potresti chiamare giochi sonori percussivi. Proprio come Wittgenstein aveva cercato di scavare fino alle radici più profonde del significato, così Reich aveva tentato di scoprire le radici più essenziali del ritmo. Che cosa ha imparato Reich dall’Africa? Credo che il suo debito sia chiaro sotto due aspetti. In primo luogo, credo abbia imparato come sia possibile creare un’opera di grandi dimensioni fatta per lo più di percussioni basandosi su strutture abbastanza elementari. In secondo luogo, sembra aver assimilato l’idea di una tecnica di cueing, in base alla quale un esecutore inizia una nuova serie di riff e invita gli altri a seguirlo. Secondo Jones, questo è un elemento importante negli ensemble di Ewe, in cui il Master Drummer avvia ogni nuova fase del procedimento. Nel suo sviluppo spiraliforme l’opera di Reich torna a sfiorare i temi e le tecniche dei suoi esordi, ma con tutti i sussidi di una tecnologia più avanzata e di un pensiero più evoluto. Ne sono prova negli anni Ottanta i vari “counterpoint “, in cui gli strumenti suonano contro sé stessi ovvero contro la propria immagine registrata. Così nascono nel 1982 Vermont Counterpoint, per ottavino, flauto, flauto contralto e nastro magnetico, nel 1985 New York Counterpoint per clarinetto, clarinetto basso e nastro magnetico, e nel 1987 Electric Counterpoint per chitarra e nastro magnetico, tutti componimenti che si basano sul canone e seguono le stesse procedure di Violin Phase e Piano Phase, ma con figurazioni melodiche più estese e cambiamenti armonici più flessibili. Da questo momento per descrivere le opere di Reich non sono più sufficienti i procedimenti di volta in volta inventati e messi a punto; le tecniche, i motivi ideali e le proiezioni drammatiche si intrecciano in complesse tessiture con una capacità di incastro che nulla perde del suo rigore deduttivo.
Il riconoscimento di tali costanti può offrire non solo una nuova chiave di lettura delle musiche di Reich, ma anche dei fatti relativi alle migrazioni culturali. Quando Steve Reich si recò in Ghana nell’estate del 1970, non era alla ricerca di qualcosa di esotico diverso da quello che gli era familiare in America. Cercava l’affinità sotto forma di pulsazioni ritmiche, probabilmente l’elemento più definitivo e onnipresente in tutta la sua produzione musicale. Esiste un DNA culturale? Non credo. Nè tanto meno credo che il DNA genetico possa gettare luce né su quella peculiare miscela di linguaggio, gusto, educazione, sessualità e storia privata che comprende ciascuno di noi, né sul “carattere nazionale” di un paese. La diffusione delle norme culturali, tuttavia, è un’avventura universale in cui siamo tutti coinvolti e che riguarda anche Electric Counterpoint. Se tutta la cultura umana è stata coinvolta in complicati percorsi migratori, storici o contemporanei, se Reich ha trovato ispirazione nella musica dell’Africa durante la sua carriera, c’è chi ha continuato su questa strada. Nel 2016 il chitarrista statunitense Daniel Lippel, a sua volta attirato dalla possibilità di esplorare le connessioni tra i pezzi contrapposti di Reich e la musica africana che li aveva parzialmente ispirati, ne propose una nuova forma di interpretazione.
“My initial approach was largely based on some superficial characteristics I associated with certain African musical traditions. I felt that a version of Electric Counterpoint that emphasized metric duality (specifically the simultaneous rhythmic contextualization of a passage of music in both duple and triple meter), and timbral heterogeneity might begin to capture the spirit I was hoping for. Luck would have it that amidst the planning period for the recording sessions, my path crossed with South African born ethnomusicologist and composer Martin Scherzinger. Among his areas of scholarly and artistic interest is examining examples of how Western composers have integrated African musical material into their work. Martin was working on a paper on Reich’s Electric Counterpoint just at the time we met. He supported my feeling that metric duality and diverse timbres might begin to illuminate the African roots of the material. I learned from Martin about the original source for the canonic material from the opening movement of the work. It is taken from a traditional piece associated with adolescent initiation rites for large horn ensemble by the Banda-Linda peoples in Central Africa.”
L’incontro con l’etnologo e compositore Martin Scherzinger permise a Lippel di approfondire le radici “esotiche” di Electric Counterpoint e di lavorare su nuove cellule ritmiche:
“We also added several other elements to the studio process in the hopes of connecting the piece to its roots. A few of the guitar parts include preparations on the strings that suggest other plucked string instruments including the African lamellaphone, and lend a more percussive timbre to the texture. For the passages involving pulsating repeated block chords in individual parts, we divided the chords into three-note oscillating patterns to produce an internal ternary rhythmic grouping juxtaposed over the prevailing meter (for example, repeated C major block chords in one part became three layered divisi parts, each repeating a three note cell, C-E-G, the next E-G-C, and the last, G-C-E). For the repeated rhythmic cycle in the second movement (which Reich notates as a 3/4, 5/8, 4/4 repeated passage), I played multiple contrasting metric orientations in different parts, with a concluding “correction” to account for the nineteenth eighth note in the passage (for instance 6/8, 6/8, 7/8, or four 2/4 bars plus a 3/8). The intended result is a more linear texture that highlights the unique contour of this rhythmic cycle without internal mixed meter interruptions of the rhythmic feel.”
Questo approccio non ortodosso ha generato una nuova versione, con una maggiore dinamica, che fluisce e rifluisce come una performance dal vivo e offre una nuova versione sonora del pezzo. Allo stesso tempo questa versione trasmette riverenza sia per la versione originale che per la cultura musicale tradizionale a cui fa riferimento. Può essere rischioso pretendere di trarre influenza da una cultura musicale diversa dalla propria, ma sia Reich che Lippel sono riusciti a farlo con molta umiltà. Electric Counterpoint è un pezzo notevole che tocca e attraversa così tante connessioni musicali e culturali. Come in ogni grande brano musicale, esso premia molte interpretazioni diverse, e questa versione ha portato nuovo entusiasmo dandoci la possibilità di ascoltare questo pezzo in un diverso contesto. Daniel Lippel tratta il suono di Reich come uno dei materiali della sua arte. Dove per arte si intende un modo per organizzare le proprie considerazioni sulla storia, sul progresso e sulle relazioni tra queste cose e l’individuo. Il risultato è una combinazione irresistibile di freddezza e orecchiabilità, tempo e controtempo. Personalmente penso che la musica non occidentale possa ancora essere un’importante fonte d’ispirazione per i compositori e i musicisti occidentali alla ricerca di nuove idee. I musicisti occidentali delle generazioni precedenti alle nostre potevano solo ascoltare le forme non occidentali, dal vivo o registrate. Oggi si sono moltiplicate le possibilità di imparare a suonare la musica africana, balinese, giavanese, indiana, coreana, giapponese, e molte altre, direttamente da musicisti provenienti dagli stessi paesi. Un musicista occidentale ha dunque la possibilità di avvicinarsi alla musica non occidentale come se fosse la propria, di imparare a suonarla studiando con un maestro qualificato e di analizzarla nei dettagli per capire come è fatta. Si potranno così scoprire sistemi fondamentalmente diversi di struttura compositiva, di costruzione delle scale, di accordatura e di tecnica strumentale la cui conoscenza porterebbe a considerare il sistema occidentale non come, citando Gramsci, una forma di “egemonia culturale”, ma come una tra le tante possibilità. Mi permetto di citare ancora Sergio Sorrentino: “Electric Counterpoint è il brano più eseguito e inciso per chitarra elettrica. È il capolavoro assoluto del repertorio, scritto da quello che è il più importante e influente compositore vivente della musica classica occidentale. In questa composizione la chitarra è scissa in molteplici alter ego e abita allo stesso tempo numerose realtà parallele. È la poetica della affascinante complessità dell’epoca contemporanea.”