Takayanagi Masayuki in solo, Lonely Woman e altre storie su #neuguitars #blog #TakayanagiMasayuki
“Some say his greatest work was 1970’s MASS PROJECTION, others cite 1972’s FREE FORM SUITE, or even 1982’s LONELY WOMAN, while my mind’s just a blur from the sonic soup that Jojo tips over my melted plastic brain every time I whip his records out. His guitar-playing rings the turkey necks of every other free-guitar wailer I’ve listened to, and his most obliterated music exerts such G-force that it’s difficult to stay awake in the presence of his records “
Così scriveva nel 2007, il druido musicale Julian Cope nel suo “Japrocksampler How the post-war japanese blew their minds on Rock’n’roll”, seguito ideale di quel “Krautrocksampler” del 1995 che aveva fatto innamorare tanti di noi del rock visionario tedesco. Ascoltatore attento e diligente, scrittore anfetaminico e emozionale, il buon Cope ha dato il suo fondamentale contributo per la mia personale scoperta di Takayanagi Masayuki. “Lonely Woman” è stato il suo primo cd che mi sono procurato cercando su internet, ed è stato quello che ha scatenato il mio interesse per questo musicista così complesso, difficile e affascinante.
Siamo nel 1982 e in un arco di tempo molto concentrato che va dal 21 Agosto al 21 dicembre, Takayanagi decise di registrare tre album, a mio avviso altamente iconici e rappresentativi del suo stile chitarristico: “Lonely Woman”, “Lonely Woman Live” e “Solo”. Questi album sono casi unici nella sua storia di improvvisatore: solo qui, infatti, lo si può sentire suonare in solo e sono tutti concentrati in un arco temporale molto breve, pochi mesi in cui qualcosa deve essere scattato nella mente di Takayangi, spingendolo a registrare questi tre album solitari e intimisti, concentrandosi su un pugno di brani, quasi di standards, che vengono rivisitati ogni volta in modo diverso. Gli improvvisatori sono, di regola, musicalmente gregari, preferendo lavorare con altri musicisti in combinazioni le più svariate, faceva notare il buon Derek Bailey nel suo libro “Improvvisazione Sua natura e pratica in musica” e Takayanagi non è stato una eccezione. Takayanagi ha suonato con chiunque, andando dal duo fino alle numerose big band. Per la maggior parte della gente l’idea di improvvisazione, malgrado si tratti di un veicolo per l’espressione personale, è legata a quella di suonare con qualcun altro, e penso che alcune delle maggiori possibilità consentite dall’improvvisazione risiedano nell’esplorazione dei rapporti tra i musicisti. Da questo punto di vista l’improvvisazione “in solo” non avrebbe assolutamente senso, faceva notare Bailey. Tuttavia anche Takayanagi, a un certo punto, ha sentito la necessità di investigare la questa possibilità di suonare e lo ha fatto in un modo diverso, quasi convenzionale, rispetto alle scelte operate dagli altri campioni della libera improvvisazione. In questi tre album Takayanagi sembra aver voluto far ricorso a delle forme più convenzionali, ritornando, in un certo senso, alla sua formazione personale di chitarrista be-bop, reinterpretando in modo esplorativo e quasi ossessivo quattro brani: “Lonely Woman” di Ornette Coleman, “Katy’s Trance” di Lee Konitz, “Song for Che” di Charlie Haden e “Lennie’s Pennies” di Lennie Tristano, unendoli ad altre composizioni personali. Perché questa scelta? Forse voleva sapere se il linguaggio che usava era completo? Se poteva fornirgli tutto quello che voleva, in un’esibizione musicale? O forse voleva ritornare sui suoi passi, rileggendo e rinvigorendo il suo background musicale?

L’analogia con il linguaggio, spesso usata dai musicisti improvvisatori quando discutono del loro lavoro, ha una certa utilità per illustrare quella costruzione di una riserva comune di materiali (un vero e proprio vocabolario) che ha luogo quando un gruppo di musicisti improvvisa insieme regolarmente. Quando un gruppo di improvvisazione opera bene, il grosso del materiale del gruppo stesso verrà inizialmente fornito dagli stili, dalle tecniche e dalle abitudini dei musicisti che lo compongono, ecco perché ogni cambio nella formazione comporta sia l’adozione di nuove forme, che l’ingresso di nuovi stili. Questo vocabolario verrà poi sviluppato individualmente, nel lavoro e nella ricerca fuori dal gruppo, e collettivamente in concerto. Anche Takayanagi sembra aver optato verso una forma di apprendimento simile. Nella scelta e nello sviluppo del suo materiale come improvvisatore solita, Takayanagi sembra lavorare per vie simili a quelle dell’improvvisatore di gruppo: costruire un vocabolario personale, e lavorare per ampliarlo, sia nelle esibizioni sia durante le prove. In questi tre album sembra aver deciso di ricorre a un materiale conosciuto, le cui associazioni storiche o sistematiche potevano essere ignorate e/o de-costruite. Forse ha cercato del materiale che fosse adatto alle sue forme improvvisative e che le potessero anche facilitare. Bailey scriveva come le più ovvie differenze rispetto all’improvvisazione di gruppo (maggior coesione e controllo più facile da parte del solista) non sono necessariamente un vantaggio nell’improvvisazione individuale e come un ulteriore svantaggio sia dato dalla perdita di quell’elemento di imprevedibilità generalmente fornito dagli altri musicisti.

Un musicista esperto come Takayangi era sicuramente conscio di questi limiti: in questa situazione il linguaggio acquista assai maggiore importanza e ci sono momenti, nell’improvvisazione “in solo”, in cui il musicista si troverà ad appoggiarsi integralmente al linguaggio che usa. In quei momenti, in cui sembrano scomparire le risorse più accettabili dal punto di vista estetico, come la fantasia e l’inventiva, il vocabolario diventa l’unico mezzo di sostegno, sostenendo la continuità e la spinta di un’esibizione musicale. In questo senso Takayanagi sembra essere riuscito ad evitare una delle peggiori trappole che sembra sorgere nell’improvvisazione “in solo”: ha saputo resistere alla facile tentazione di ricorrere a procedure provate e certe, per dare vita a quelle parti della performance che sono le più gradevoli al pubblico. Infatti, nell’improvvisazione “in solo”, come in buona parte della musica eseguita dal vivo, una risposta positiva del pubblico può causare l’estrazione ripetuta di riti e formule che ormai da lungo tempo hanno perso qualsiasi interesse musicale. A questo punto la credibilità dell’attività sta nell’equilibrio e il suo mantenimento dipende solo dal coraggio del musicista: ogni volta che suonare “in solo” scende al livello di riciclare le formule che hanno in passato avuto successo, la sua importanza per l’improvvisazione diventa veramente minima. Takayanagi questo lo sapeva bene, ogni album suona in modo diverso, sia per quanto riguarda la costruzione musicale, sia per quanto attiene il suono utilizzato. Forse anche questa è una delle possibili chiavi di lettura di questi tre album: una volta che è stato riunito un vocabolario di una qualche omogeneità, ed è stato provato che quel vocabolario funziona nelle situazioni dal vivo, ad esso può essere aggiunto almeno per un certo periodo, materiale da qualsiasi fonte. E questa è una necessità, perché il bisogno di materiale è continuo. Una sensazione di freschezza è essenziale, e il miglior modo di ottenerla è rinnovare continuamente una parte del materiale. In un certo senso Takayanagi ha voluto cercare un cambiamento fine a se stesso. Un cambiamento che ha come fine i benefici che il cambiamento stesso può apportare. Quelli che alla fine vengono rivelati dal tentativo di analizzare in questo modo il proprio modo di suonare sono, tra le altre cose, i limiti dell’analogia con il linguaggio o il vocabolario. Lo stile di Takayanagi è, infatti, qualcosa di immediatamente riconoscibile: un vocabolario scontroso e radicalmente individualista fatto di dissonanze cromatiche, spinose interiezioni, discontinuità ritmiche, cambi mutevoli di accordi arricchiti da armonie improbabili e fragili. Da questo punto di vista Takayanagi è quanto di più vicino, musicalmente, ci sia a un semiologo e se la sua chitarra è stata una sorta di laboratorio per sviluppare delle tecniche estese volte a ridefinire e de-costruire lo strumento, il suo modo di suonare si distingueva dagli altri in quanto sembrava mirare alla de-costruzione di stili di esecuzione fino ad allora familiari, in particolare dell’estetica be-bop. Paradossalmente Takayanagi ha, forse, trovato nell’improvvisazione solista la base migliore per affrontare e rinnovare l’improvvisazione di gruppo: non avendo lealtà di gruppo da tradire e avendo come ultima risorsa la sua musica in solitudine. Come improvvisatore “in solo” Takayanagi ha dimostrato di poter suonare con altri musicisti tanto spesso quanto vuole, qualsiasi opinione essi abbiano, senza dover assumere un impegno permanente verso un qualsiasi stile o estetica. Questa credo che sia la situazione ideale per l’improvvisatore. L’estetica di Takayanagi rappresentava un caso estremo di inclinazione all’autonomia della musica improvvisata. Essa si muoveva, cambiava, mutava prima che il suo stile potesse consolidarsi in una convenzione, in una forma definita. Un vero maestro di semantica e di stile.